lunedì 28 marzo 2016

Doc

 Doc si svegliò col solito mal di testa. Si sedette sul letto, si stropicciò gli occhi producendo un rumore di stoviglie sgrassate e tirò fuori le gambe dalle coperte verso l’esterno del letto. Portò i piedi verso terra con cautela, badando bene di non sfiorare il pavimento. Infilò le pantofole che il giorno prima aveva sistemato, ciascuna in una piastrella diversa, parallele ed equidistanti dai bordi, lontano dalle fughe candide. I suoi nonni avevano voluto pavimenti di ampie lastre di marmo. Pensava con orrore alle piastrelle di maiolica che erano in casa di Guido, dove il suo quarantasei e mezzo avrebbe strabordato oltre le fughe annerite da anni di accumulo di sudiciume. Era molto tempo che non entrava in casa di Guido.
Si alzò e si mise delle mutande pulite, andò in bagno e alzò la ciambella. Nonostante la pressione vescicale fosse ai limiti massimi delle sue possibilità, prese a lungo la mira prima di dirigere lo schizzo preciso nel buco del vater. Peccato non ci fosse un testimone che potesse constatare questa sua dote inusuale, tanto apprezzata dalle donne. 
Tirò la catenella e iniziò un accurato lavaggio genitale terminandolo con asciugatura ad aria dell’apposito apparecchio asciugatore appeso alla parete accanto al bidé. Poi passò a lavarsi le mani con la pratica che aveva imparato sui depliant illustrati che si trovano in ospedale. Con la punta delle dita appaiate, grattugiò a lungo il palmo dell’altra mano. Sorrise pensando che un osservatore frettoloso avrebbe equivocato lo scopo di quel gesto che in realtà serve a pulire il margine delle unghie grattugianti. Poi con quelle stesse dita, questa volta disposte a cannolo, circondò e strusciò accuratamente ciascun dito dell’altra mano per il senso della lunghezza. Il lavaggio standard, quello in cui si stringono reciprocamente le mani, non è efficace a detergere gli spazi alla base delle dita, rifugio naturale degli acari. Invertì i ruoli di destra e sinistra: la mano fino ad allora lavante divenne da lavare e la lavata, lavante. A Doc piaceva complicare le cose semplici, almeno a parole. Gli piacevano i giochi di parole complicati. Ma complicarsi la vita non era  per lui un piacere.
La colazione era un momento stressante perché era fatta di attività sporche che lui poteva evitare solo in parte. Sulla mensola del lavandino c’erano allineate le macchinette per il caffè già pronte con acqua e polvere, ben chiuse: una per la colazione, una per il pranzo e una per la cena. Le preparava Gilda, la domestica che veniva a giorni alterni. La moca non si può lavare col sapone, non si può mettere in lavastoviglie: è obbligatorio infilare le dita nella polvere umida. L’alternativa è lasciarla chiusa e passare il problema a un altro. L’intervento sulla crosticina accagliata lungo il perimetro del pentolino, esito di latte riscaldato, era inevitabile. Non era uno spazio confinato: qualcuno doveva immediatamente impedire al biofilm di autoalimentarsi e spargere intorno migliaia di microbi. Gli ripugnava ma manteneva un suo senso del dovere. Infilava un paio di guanti da cucina, nuovi, prendeva la spazzolino per pentole e faceva quello che doveva fare, in apnea. Riprendeva a respirare soltanto alla chiusura dello sportello della lavastoviglie.
La vestizione non era ansiogena, tranne quando si doveva infilare le scarpe. Allora interveniva con quindici minuti di meditazione guidato dalla voce registrata del suo maestro yogi Jacopo. Il rilassamento che ne conseguiva gli procurava l’autocontrollo sufficiente a uscire di casa.
Si incamminò. Raggiungeva qualunque destinazione a piedi perché evitava gli spazi confinati troppo angusti e il bus era quello di tipo peggiore. Doc era dinamico, atletico, anche se non frequentava palestre per ovvi motivi. Soprattutto per scansare i famigerati funghi delle docce. Quindi arrivò a destinazione in venti minuti senza fiatone, ovviamente non fumava. Fu accolto da un manifesto con la sua bella faccia. Il messaggio truffaldino dei suoi profondi occhi neri, incastonati in una cornice di ricci altrettanto scuri, esprimeva una virilità in realtà assai poco esercitata. Anche la sua voce profonda evocava nelle sue fans l'aspettativa di torride sedute di sesso sfrenato ma era per puro caso se non era ancora vergine. La sua prima esperienza era stata precoce, fu sedotto dalla vicina di casa di quindici anni più grande. Lui era un ragazzino, lei era una donna vera, diversa dalle sue insicure compagne di studi trincerate dietro formalismi e falsi pregiudizi morali. Fu una relazione piuttosto duratura ma iniziò a sgretolarsi impercettibilmente sin dall’inizio. Doc andava imparando le cose di cui aver paura e lei si spaventò per la progressione sommatoria delle sue fissazioni.
Doc entrò nel camerino e tolse gli auricolari dalla bustina di plastica con cui le aveva sterilizzate sotto gli UV. Le infilò nelle orecchie e poi inserì lo spinotto nel telefono. Si lasciò andare alla cantilena ipnotica della voce di Jacopo. Bene perché l’effetto della prima dose si era già esaurito. Quindi salì sul palco.
“Buonasera a tutti, come va? Tutto bene? A me va a meraviglia, sono arrivato qui a piedi, ho contato i passi: 2375. E ci sono 23 scalini dal camerino nei sotterranei. Chissà perché i camerini sono sempre nei sotterranei. Forse per ricordare che la strada per il successo è in salita…
Comunque i numeri sono la mia passione fin da bambino. Il primo ricordo è intorno ai tre anni, col nonno che mi faceva contare gli scalini per arrivare al nostro appartamento al secondo piano, 32. Me li faceva contare tutti i giorni, più volte al giorno. Ora capisco le sue buone intenzioni ma allora… non apprezzavo. Non avevo neanche un orologio di Topolino da guardare con impazienza per fargli capire che una volta va bene, la seconda passi ma alla quinta mi ero già rotto le palle.
Poi ho cominciato a contare per conto mio. Prevalentemente elencavo quante volte mi lavavo le mani. Non era lo stesso numero tutti i giorni. Le lavavo ogni volta che le avevo sporche. Cioè ogni volta che toccavo un oggetto sporco. Cioè ogni volta che toccavo un oggetto che non era mio. Diciamo dieci, dodici volte la mattina e di nuovo il pomeriggio. Questo accadeva, quando ero commesso in un negozio di abbigliamento in centro. Avete la minima idea di quanti e quali microbi ci siano su una scatola di cartone che è passata dalla casa di una lavoratrice a cottimo, di un paese del terzo mondo, dove vivono tutti in una stanza, con figli grandi e piccoli, i nonni, gli animali domestici e da cortile? Quella scatola poi va insieme ad altre che provengono dalle case di lavoratrici diverse, di villaggi diversi, in regioni diverse, di stati diversi, tutti accomunati dal mancato rispetto delle più elementari norme igieniche. La scatola va in una stiva. Pensate al micro mondo che prolifera nella stiva di una nave: muffe, batteri, virus, protozoi, lieviti che possono infettarvi e provocare allergie da contatto e produrre tossine che agiscono lontano nel tempo e nello spazio. Poi il carico infetto arriva in un paese dell’Est Europa e viene caricato nella stiva di un aereo. Qui almeno si blocca la perversa moltiplicazione iperbolica: a diecimila metri la temperatura va sotto zero.
Comunque, eliminata la scatola e le singole buste che racchiudono i capi di abbigliamento, mi potevo togliere i guanti, consideravo la merce sufficientemente pulita. Allora contavo le magliette mentre le impilavo sugli scaffali badando che i loro profili combaciassero. 
A parte le sue manie, lei è il commesso ideale… 
Con queste parole il responsabile del negozio mi consegnò il trofeo dorato, pacchiano e pieno di ditate, che è rimasto in salotto per tre anni di fila, muto testimone della mia abilità di venditore. Questo lo dovevo tutto a mia madre e a lei ogni volta dedicavo il premio ma non l'ha mai saputo. Mia madre non veniva a trovarmi sul lavoro e non vide mai la mia menzione speciale attaccata in bacheca. 
Mamma esce di casa raramente. Mentre la Gilda fa i lavori di casa, la mamma conta e impila tutto quello che trova nel guardaroba. Il suo è il corredo esagerato di una figlia unica della buona borghesia ma un pomeriggio aveva finito i pezzi da contare e non voleva distruggere le pile già composte. Gilda andò di corsa a casa sua e le portò i tovaglioli spaiati del suo corredo. Gilda è la nostra salvezza ma non ha sempre tutta questa pazienza. Ogni tanto vorrebbe togliersi la mamma dai piedi ma non è semplice smuoverla: mamma non esce se abiti ed accessori non sono tutti dello stesso colore. Non importa se ormai non c'è nessuno che pretenda di vedere il colore delle sue mutande.
A un certo punto ho smesso di contare e impilare oggetti: è stato allora che mi hanno licenziato. Avevo una nuova passione: le parole e il suono della mia voce. Mi fissavo su  due parole e ci ragionavo sopra fino a che non trovavo il legame logico indissolubile tra loro. Compravo la settimana enigmistica soltanto per risolvere il bersaglio e poi la regalavo a Gilda. Ogni giorno andavo dal giornalaio e mi lamentavo dell’iniquità che produceva un sacco di riviste di cruciverba e nessuna dedicata alla logica verbale. Passavo pomeriggi interi in edicola facendo monologhi logici e lamentele specifiche mentre il giornalaio sistemava le riviste in silenzio. Qualche avventore casuale mi lanciava una sfida mentre usciva col suo giornale sotto braccio. Poi qualcuno si è fermato più a lungo e si sono alternati momenti di silenzio a scrosci di risate. L'edicola era diventato un circolo di gente che rideva. Beh, lì ho ho capito cosa dovevo fare per stare bene con me stesso. E ora ditemi due parole e le collegherò in meno di sei passaggi… Come dice... la signora laggiù... sì, proprio lei, là in fondo... Eccessi e... Moine? Facile: Eccessi  - Carenze - Carezze – Moine...”
Una debole sirena annunciò che il pranzo era pronto.
“Prima che ve ne andiate… mi rendo conto soltanto ora che non mi sono presentato. Mi chiamo Antonio. Quello sul manifesto è il mio nome d’arte: DOC come “Disturbo Ossessivo Compulsivo.” 

Scroscio di applausi. Nessun fischio, i degenti di Villa Il Sorriso portano quasi tutti la dentiera. 

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