Doc
si svegliò col solito mal di testa. Si sedette sul letto, si
stropicciò gli occhi producendo un rumore di stoviglie sgrassate e
tirò fuori le gambe dalle coperte verso l’esterno del letto. Portò
i piedi verso terra con cautela, badando bene di non sfiorare il
pavimento. Infilò le pantofole che il giorno prima aveva sistemato,
ciascuna in una piastrella diversa, parallele ed equidistanti dai
bordi, lontano dalle fughe candide. I suoi nonni avevano voluto
pavimenti di ampie lastre di marmo. Pensava con orrore alle
piastrelle di maiolica che erano in casa di Guido, dove il suo
quarantasei e mezzo avrebbe strabordato oltre le fughe annerite da
anni di accumulo di sudiciume. Era molto tempo che non entrava in
casa di Guido.
Si
alzò e si mise delle mutande pulite, andò in bagno e alzò la
ciambella. Nonostante la pressione vescicale fosse ai limiti massimi
delle sue possibilità, prese a lungo la mira prima di dirigere lo
schizzo preciso nel buco del vater. Peccato non ci fosse un testimone
che potesse constatare questa sua dote inusuale, tanto apprezzata
dalle donne.
Tirò
la catenella e iniziò un accurato lavaggio genitale terminandolo con
asciugatura ad aria dell’apposito apparecchio asciugatore appeso
alla parete accanto al bidé. Poi passò a lavarsi le mani con la
pratica che aveva imparato sui depliant illustrati che si trovano in
ospedale. Con la punta delle dita appaiate, grattugiò a lungo il
palmo dell’altra mano. Sorrise pensando che un osservatore
frettoloso avrebbe equivocato lo scopo di quel gesto che in realtà
serve a pulire il margine delle unghie grattugianti. Poi con quelle
stesse dita, questa volta disposte a cannolo, circondò e strusciò
accuratamente ciascun dito dell’altra mano per il senso della
lunghezza. Il lavaggio standard, quello in cui si stringono
reciprocamente le mani, non è efficace a detergere gli spazi alla
base delle dita, rifugio naturale degli acari. Invertì i ruoli di
destra e sinistra: la mano fino ad allora lavante divenne da lavare e
la lavata, lavante. A Doc piaceva complicare le cose semplici, almeno
a parole. Gli piacevano i giochi di parole complicati. Ma complicarsi
la vita non era per lui un piacere.
La
colazione era un momento stressante perché era fatta di attività
sporche che lui poteva evitare solo in parte. Sulla mensola del
lavandino c’erano allineate le macchinette per il caffè già
pronte con acqua e polvere, ben chiuse: una per la colazione, una per
il pranzo e una per la cena. Le preparava Gilda, la domestica che
veniva a giorni alterni. La moca non si può lavare col sapone, non
si può mettere in lavastoviglie: è obbligatorio infilare le dita
nella polvere umida. L’alternativa è lasciarla chiusa e passare il
problema a un altro. L’intervento sulla crosticina accagliata lungo
il perimetro del pentolino, esito di latte riscaldato, era
inevitabile. Non era uno spazio confinato: qualcuno doveva
immediatamente impedire al biofilm di autoalimentarsi e spargere
intorno migliaia di microbi. Gli ripugnava ma manteneva un suo senso
del dovere. Infilava un paio di guanti da cucina, nuovi, prendeva la
spazzolino per pentole e faceva quello che doveva fare, in apnea.
Riprendeva a respirare soltanto alla chiusura dello sportello della
lavastoviglie.
La
vestizione non era ansiogena, tranne quando si doveva infilare le
scarpe. Allora interveniva con quindici minuti di meditazione guidato
dalla voce registrata del suo maestro yogi Jacopo. Il rilassamento
che ne conseguiva gli procurava l’autocontrollo sufficiente a
uscire di casa.
Si
incamminò. Raggiungeva qualunque destinazione a piedi perché
evitava gli spazi confinati troppo angusti e il bus era quello di
tipo peggiore. Doc era dinamico, atletico, anche se non frequentava
palestre per ovvi motivi. Soprattutto per scansare i famigerati
funghi delle docce. Quindi arrivò a destinazione in venti minuti
senza fiatone, ovviamente non fumava. Fu accolto da un manifesto con
la sua bella faccia. Il messaggio truffaldino dei suoi profondi occhi
neri, incastonati in una cornice di ricci altrettanto scuri,
esprimeva una virilità in realtà assai poco esercitata. Anche la
sua voce profonda evocava nelle sue fans l'aspettativa di torride
sedute di sesso sfrenato ma era per puro caso se non era ancora
vergine. La sua prima esperienza era stata precoce, fu sedotto dalla
vicina di casa di quindici anni più grande. Lui era un ragazzino,
lei era una donna vera, diversa dalle sue insicure compagne di studi
trincerate dietro formalismi e falsi pregiudizi morali. Fu una
relazione piuttosto duratura ma iniziò a sgretolarsi
impercettibilmente sin dall’inizio. Doc andava imparando le cose di
cui aver paura e lei si spaventò per la progressione sommatoria
delle sue fissazioni.
Doc
entrò nel camerino e tolse gli auricolari dalla bustina di plastica
con cui le aveva sterilizzate sotto gli UV. Le infilò nelle orecchie
e poi inserì lo spinotto nel telefono. Si lasciò andare alla
cantilena ipnotica della voce di Jacopo. Bene perché l’effetto
della prima dose si era già esaurito. Quindi salì sul palco.
“Buonasera
a tutti, come va? Tutto bene? A me va a meraviglia, sono arrivato qui
a piedi, ho contato i passi: 2375. E ci sono 23 scalini dal camerino
nei sotterranei. Chissà perché i camerini sono sempre nei
sotterranei. Forse per ricordare che la strada per il successo è in
salita…
Comunque
i numeri sono la mia passione fin da bambino. Il primo ricordo è
intorno ai tre anni, col nonno che mi faceva contare gli scalini per
arrivare al nostro appartamento al secondo piano, 32. Me li faceva
contare tutti i giorni, più volte al giorno. Ora capisco le sue
buone intenzioni ma allora… non apprezzavo. Non avevo neanche un
orologio di Topolino da guardare con impazienza per fargli capire che
una volta va bene, la seconda passi ma alla quinta mi ero già rotto
le palle.
Poi
ho cominciato a contare per conto mio. Prevalentemente elencavo
quante volte mi lavavo le mani. Non era lo stesso numero tutti i
giorni. Le lavavo ogni volta che le avevo sporche. Cioè ogni volta
che toccavo un oggetto sporco. Cioè ogni volta che toccavo un
oggetto che non era mio. Diciamo dieci, dodici volte la mattina e di
nuovo il pomeriggio. Questo accadeva, quando ero commesso in un
negozio di abbigliamento in centro. Avete la minima idea di quanti e
quali microbi ci siano su una scatola di cartone che è passata dalla
casa di una lavoratrice a cottimo, di un paese del terzo mondo, dove
vivono tutti in una stanza, con figli grandi e piccoli, i nonni, gli
animali domestici e da cortile? Quella scatola poi va insieme ad
altre che provengono dalle case di lavoratrici diverse, di villaggi
diversi, in regioni diverse, di stati diversi, tutti accomunati dal
mancato rispetto delle più elementari norme igieniche. La scatola va
in una stiva. Pensate al micro mondo che prolifera nella stiva di una
nave: muffe, batteri, virus, protozoi, lieviti che possono infettarvi
e provocare allergie da contatto e produrre tossine che agiscono
lontano nel tempo e nello spazio. Poi il carico infetto arriva in un
paese dell’Est Europa e viene caricato nella stiva di un aereo. Qui
almeno si blocca la perversa moltiplicazione iperbolica: a
diecimila metri la temperatura va sotto zero.
Comunque,
eliminata la scatola e le singole buste che racchiudono i capi di
abbigliamento, mi potevo togliere i guanti, consideravo la merce
sufficientemente pulita. Allora contavo le magliette mentre le
impilavo sugli scaffali badando che i loro profili combaciassero.
A parte
le sue manie, lei è il commesso ideale…
Con
queste parole il responsabile del negozio mi consegnò il trofeo
dorato, pacchiano e pieno di ditate, che è rimasto in salotto per
tre anni di fila, muto testimone della mia abilità di venditore.
Questo lo dovevo tutto a mia madre e a lei ogni volta dedicavo il
premio ma non l'ha mai saputo. Mia madre non veniva a trovarmi
sul lavoro e non vide mai la mia menzione speciale attaccata in
bacheca.
Mamma
esce di casa raramente. Mentre la Gilda fa i lavori di casa, la mamma
conta e impila tutto quello che trova nel guardaroba. Il suo è il
corredo esagerato di una figlia unica della buona borghesia ma un
pomeriggio aveva finito i pezzi da contare e non voleva distruggere
le pile già composte. Gilda andò di corsa a casa sua e le portò i
tovaglioli spaiati del suo corredo. Gilda è la nostra salvezza ma
non ha sempre tutta questa pazienza. Ogni tanto vorrebbe togliersi la
mamma dai piedi ma non è semplice smuoverla: mamma non esce se abiti
ed accessori non sono tutti dello stesso colore. Non importa se ormai
non c'è nessuno che pretenda di vedere il colore delle sue
mutande.
A
un certo punto ho smesso di contare e impilare oggetti: è stato
allora che mi hanno licenziato. Avevo una nuova passione: le parole e
il suono della mia voce. Mi fissavo su due parole e ci
ragionavo sopra fino a che non trovavo il legame logico indissolubile
tra loro. Compravo la settimana enigmistica soltanto per risolvere
il bersaglio e poi la regalavo a Gilda. Ogni giorno
andavo dal giornalaio e mi lamentavo dell’iniquità che produceva
un sacco di riviste di cruciverba e nessuna dedicata alla logica
verbale. Passavo pomeriggi interi in edicola facendo monologhi logici
e lamentele specifiche mentre il giornalaio sistemava le riviste in
silenzio. Qualche avventore casuale mi lanciava una sfida mentre
usciva col suo giornale sotto braccio. Poi qualcuno si è fermato più
a lungo e si sono alternati momenti di silenzio a scrosci di risate.
L'edicola era diventato un circolo di gente che rideva. Beh, lì ho
ho capito cosa dovevo fare per stare bene con me stesso. E ora ditemi
due parole e le collegherò in meno di sei passaggi… Come dice... la
signora laggiù... sì, proprio lei, là in fondo... Eccessi e... Moine? Facile:
Eccessi - Carenze - Carezze – Moine...”
Una
debole sirena annunciò che il pranzo era pronto.
“Prima
che ve ne andiate… mi rendo conto soltanto ora che non mi sono
presentato. Mi chiamo Antonio. Quello sul manifesto è il mio nome
d’arte: DOC come “Disturbo Ossessivo Compulsivo.”
Scroscio
di applausi. Nessun fischio, i degenti di Villa Il Sorriso portano
quasi tutti la dentiera.
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