lunedì 28 marzo 2016

Doc

 Doc si svegliò col solito mal di testa. Si sedette sul letto, si stropicciò gli occhi producendo un rumore di stoviglie sgrassate e tirò fuori le gambe dalle coperte verso l’esterno del letto. Portò i piedi verso terra con cautela, badando bene di non sfiorare il pavimento. Infilò le pantofole che il giorno prima aveva sistemato, ciascuna in una piastrella diversa, parallele ed equidistanti dai bordi, lontano dalle fughe candide. I suoi nonni avevano voluto pavimenti di ampie lastre di marmo. Pensava con orrore alle piastrelle di maiolica che erano in casa di Guido, dove il suo quarantasei e mezzo avrebbe strabordato oltre le fughe annerite da anni di accumulo di sudiciume. Era molto tempo che non entrava in casa di Guido.
Si alzò e si mise delle mutande pulite, andò in bagno e alzò la ciambella. Nonostante la pressione vescicale fosse ai limiti massimi delle sue possibilità, prese a lungo la mira prima di dirigere lo schizzo preciso nel buco del vater. Peccato non ci fosse un testimone che potesse constatare questa sua dote inusuale, tanto apprezzata dalle donne. 
Tirò la catenella e iniziò un accurato lavaggio genitale terminandolo con asciugatura ad aria dell’apposito apparecchio asciugatore appeso alla parete accanto al bidé. Poi passò a lavarsi le mani con la pratica che aveva imparato sui depliant illustrati che si trovano in ospedale. Con la punta delle dita appaiate, grattugiò a lungo il palmo dell’altra mano. Sorrise pensando che un osservatore frettoloso avrebbe equivocato lo scopo di quel gesto che in realtà serve a pulire il margine delle unghie grattugianti. Poi con quelle stesse dita, questa volta disposte a cannolo, circondò e strusciò accuratamente ciascun dito dell’altra mano per il senso della lunghezza. Il lavaggio standard, quello in cui si stringono reciprocamente le mani, non è efficace a detergere gli spazi alla base delle dita, rifugio naturale degli acari. Invertì i ruoli di destra e sinistra: la mano fino ad allora lavante divenne da lavare e la lavata, lavante. A Doc piaceva complicare le cose semplici, almeno a parole. Gli piacevano i giochi di parole complicati. Ma complicarsi la vita non era  per lui un piacere.
La colazione era un momento stressante perché era fatta di attività sporche che lui poteva evitare solo in parte. Sulla mensola del lavandino c’erano allineate le macchinette per il caffè già pronte con acqua e polvere, ben chiuse: una per la colazione, una per il pranzo e una per la cena. Le preparava Gilda, la domestica che veniva a giorni alterni. La moca non si può lavare col sapone, non si può mettere in lavastoviglie: è obbligatorio infilare le dita nella polvere umida. L’alternativa è lasciarla chiusa e passare il problema a un altro. L’intervento sulla crosticina accagliata lungo il perimetro del pentolino, esito di latte riscaldato, era inevitabile. Non era uno spazio confinato: qualcuno doveva immediatamente impedire al biofilm di autoalimentarsi e spargere intorno migliaia di microbi. Gli ripugnava ma manteneva un suo senso del dovere. Infilava un paio di guanti da cucina, nuovi, prendeva la spazzolino per pentole e faceva quello che doveva fare, in apnea. Riprendeva a respirare soltanto alla chiusura dello sportello della lavastoviglie.
La vestizione non era ansiogena, tranne quando si doveva infilare le scarpe. Allora interveniva con quindici minuti di meditazione guidato dalla voce registrata del suo maestro yogi Jacopo. Il rilassamento che ne conseguiva gli procurava l’autocontrollo sufficiente a uscire di casa.
Si incamminò. Raggiungeva qualunque destinazione a piedi perché evitava gli spazi confinati troppo angusti e il bus era quello di tipo peggiore. Doc era dinamico, atletico, anche se non frequentava palestre per ovvi motivi. Soprattutto per scansare i famigerati funghi delle docce. Quindi arrivò a destinazione in venti minuti senza fiatone, ovviamente non fumava. Fu accolto da un manifesto con la sua bella faccia. Il messaggio truffaldino dei suoi profondi occhi neri, incastonati in una cornice di ricci altrettanto scuri, esprimeva una virilità in realtà assai poco esercitata. Anche la sua voce profonda evocava nelle sue fans l'aspettativa di torride sedute di sesso sfrenato ma era per puro caso se non era ancora vergine. La sua prima esperienza era stata precoce, fu sedotto dalla vicina di casa di quindici anni più grande. Lui era un ragazzino, lei era una donna vera, diversa dalle sue insicure compagne di studi trincerate dietro formalismi e falsi pregiudizi morali. Fu una relazione piuttosto duratura ma iniziò a sgretolarsi impercettibilmente sin dall’inizio. Doc andava imparando le cose di cui aver paura e lei si spaventò per la progressione sommatoria delle sue fissazioni.
Doc entrò nel camerino e tolse gli auricolari dalla bustina di plastica con cui le aveva sterilizzate sotto gli UV. Le infilò nelle orecchie e poi inserì lo spinotto nel telefono. Si lasciò andare alla cantilena ipnotica della voce di Jacopo. Bene perché l’effetto della prima dose si era già esaurito. Quindi salì sul palco.
“Buonasera a tutti, come va? Tutto bene? A me va a meraviglia, sono arrivato qui a piedi, ho contato i passi: 2375. E ci sono 23 scalini dal camerino nei sotterranei. Chissà perché i camerini sono sempre nei sotterranei. Forse per ricordare che la strada per il successo è in salita…
Comunque i numeri sono la mia passione fin da bambino. Il primo ricordo è intorno ai tre anni, col nonno che mi faceva contare gli scalini per arrivare al nostro appartamento al secondo piano, 32. Me li faceva contare tutti i giorni, più volte al giorno. Ora capisco le sue buone intenzioni ma allora… non apprezzavo. Non avevo neanche un orologio di Topolino da guardare con impazienza per fargli capire che una volta va bene, la seconda passi ma alla quinta mi ero già rotto le palle.
Poi ho cominciato a contare per conto mio. Prevalentemente elencavo quante volte mi lavavo le mani. Non era lo stesso numero tutti i giorni. Le lavavo ogni volta che le avevo sporche. Cioè ogni volta che toccavo un oggetto sporco. Cioè ogni volta che toccavo un oggetto che non era mio. Diciamo dieci, dodici volte la mattina e di nuovo il pomeriggio. Questo accadeva, quando ero commesso in un negozio di abbigliamento in centro. Avete la minima idea di quanti e quali microbi ci siano su una scatola di cartone che è passata dalla casa di una lavoratrice a cottimo, di un paese del terzo mondo, dove vivono tutti in una stanza, con figli grandi e piccoli, i nonni, gli animali domestici e da cortile? Quella scatola poi va insieme ad altre che provengono dalle case di lavoratrici diverse, di villaggi diversi, in regioni diverse, di stati diversi, tutti accomunati dal mancato rispetto delle più elementari norme igieniche. La scatola va in una stiva. Pensate al micro mondo che prolifera nella stiva di una nave: muffe, batteri, virus, protozoi, lieviti che possono infettarvi e provocare allergie da contatto e produrre tossine che agiscono lontano nel tempo e nello spazio. Poi il carico infetto arriva in un paese dell’Est Europa e viene caricato nella stiva di un aereo. Qui almeno si blocca la perversa moltiplicazione iperbolica: a diecimila metri la temperatura va sotto zero.
Comunque, eliminata la scatola e le singole buste che racchiudono i capi di abbigliamento, mi potevo togliere i guanti, consideravo la merce sufficientemente pulita. Allora contavo le magliette mentre le impilavo sugli scaffali badando che i loro profili combaciassero. 
A parte le sue manie, lei è il commesso ideale… 
Con queste parole il responsabile del negozio mi consegnò il trofeo dorato, pacchiano e pieno di ditate, che è rimasto in salotto per tre anni di fila, muto testimone della mia abilità di venditore. Questo lo dovevo tutto a mia madre e a lei ogni volta dedicavo il premio ma non l'ha mai saputo. Mia madre non veniva a trovarmi sul lavoro e non vide mai la mia menzione speciale attaccata in bacheca. 
Mamma esce di casa raramente. Mentre la Gilda fa i lavori di casa, la mamma conta e impila tutto quello che trova nel guardaroba. Il suo è il corredo esagerato di una figlia unica della buona borghesia ma un pomeriggio aveva finito i pezzi da contare e non voleva distruggere le pile già composte. Gilda andò di corsa a casa sua e le portò i tovaglioli spaiati del suo corredo. Gilda è la nostra salvezza ma non ha sempre tutta questa pazienza. Ogni tanto vorrebbe togliersi la mamma dai piedi ma non è semplice smuoverla: mamma non esce se abiti ed accessori non sono tutti dello stesso colore. Non importa se ormai non c'è nessuno che pretenda di vedere il colore delle sue mutande.
A un certo punto ho smesso di contare e impilare oggetti: è stato allora che mi hanno licenziato. Avevo una nuova passione: le parole e il suono della mia voce. Mi fissavo su  due parole e ci ragionavo sopra fino a che non trovavo il legame logico indissolubile tra loro. Compravo la settimana enigmistica soltanto per risolvere il bersaglio e poi la regalavo a Gilda. Ogni giorno andavo dal giornalaio e mi lamentavo dell’iniquità che produceva un sacco di riviste di cruciverba e nessuna dedicata alla logica verbale. Passavo pomeriggi interi in edicola facendo monologhi logici e lamentele specifiche mentre il giornalaio sistemava le riviste in silenzio. Qualche avventore casuale mi lanciava una sfida mentre usciva col suo giornale sotto braccio. Poi qualcuno si è fermato più a lungo e si sono alternati momenti di silenzio a scrosci di risate. L'edicola era diventato un circolo di gente che rideva. Beh, lì ho ho capito cosa dovevo fare per stare bene con me stesso. E ora ditemi due parole e le collegherò in meno di sei passaggi… Come dice... la signora laggiù... sì, proprio lei, là in fondo... Eccessi e... Moine? Facile: Eccessi  - Carenze - Carezze – Moine...”
Una debole sirena annunciò che il pranzo era pronto.
“Prima che ve ne andiate… mi rendo conto soltanto ora che non mi sono presentato. Mi chiamo Antonio. Quello sul manifesto è il mio nome d’arte: DOC come “Disturbo Ossessivo Compulsivo.” 

Scroscio di applausi. Nessun fischio, i degenti di Villa Il Sorriso portano quasi tutti la dentiera. 

sabato 12 marzo 2016

Giornalisti

Il povero Keith Emerson, pace all'anima sua, NON HA SCRITTO HONKY TONKY TRAIN BLUES...

L'ha scritto MEADE LUX LEWIS

Paris Metro

Vicini nel metro per due minuti
Lontani per il resto della vita.
Metropolitana collante di sguardi. 


Memento: scripta manent!

Riguardo al foglio bianco
posseggo una teoria:
la mera carta igienica ognuno sa cos’è
la prende, la rigira e poi sa far da sé.
Il foglio intonso invece 
è tutto un altro affare.
Se protocollo suscita nel giovane studente
timor reverenziale pel compito da fare.
La carta vergatina compete allo scrittore
che con ugual timore si pone lì davanti.
Come comincio adesso? Dove voglio parare?
Son dubbi ripetuti per chi della scrittura,
se non per professione s'ingegna per diletto.
Domande destinate a rimanere eluse.
Sia che si scriva tanto e poi si scarti,
o che si pensi a lungo all’immortale inizio.
Ammesso, e non concesso, il sacro fuoco
è inutile sforzare il proprio ingegno:
il poeta recluso può solo immaginare,
esprimere inventando le cose che non sa.
Sol chi dal quotidiano trae pasto per la mente
soddisfacente trova l’anelito a creare
e soddisfatto appare del tono pertinente. 
Così materializza qualcosa che sia degno
così si entra appieno nell’ambito desiato
così si può andar fieri di ciò che si è creato.
E se anche questa volta l'alloro si consegue,
senza toni drammatici o dover esser greve,
ringrazio il cielo e penso ai poveri poeti
che aspirano alla fama prima ancor di poetare
e scrivono di getto parole da gettare.

















6 marzo 2014


Un volgare medievale


Lo scorso 5 marzo, in questo spazio, è stato pubblicato un testo in volgare che ha ricevuto il plauso dei pochi che ce l'hanno fatta a leggerlo. Il suddetto testo era riportato su una pergamena rinvenuta da un derattizzatore nei sotterranei della Collegiata di San Giorgio a Tubinga. Consegnato alla locale e prestigiosa Università, il prezioso reperto è stato tradotto ad opera dell'eminente medievalista Torinven Erfinder Von Warmwasser. 

Inoltriamo con piacere per il sollazzo di coloro che fossero rimasti orfani di questa storia.

Sul semicerchio e sull'ingegno di Donna Berta

Sotto l’ombra di una quercia Duccio impreca tra sé mentre l’ultimo nato dorme protetto dal corpo di sua madre. Gli altri animali gironzolano e brucano le cicerbite svogliatamente, il caldo delle tre del pomeriggio a metà agosto abbatte bestie e cristiani, ma non è l’afa che disturba Duccio. Ripensa con amarezza a un fatto successo nei giorni passati, al colpo di fortuna che aveva sfiorato lui per poi colpire definitivamente suo cugino.
Indispettito ripensa alle innumerevoli volte  che questo è successo: ogniqualvolta che a Duccio viene in mente qualcosa di spettacolare, suo cugino lo anticipa e lo fa meglio ricevendo un beneficio, mentre Duccio rimane con un pugno di mosche in mano. 
Era stato Duccio ad incontrare casualmente il maestro pittore e subito aveva pensato di esibire in qualche modo il suo talento perché quello lo portasse con sé a bottega a Firenze.    
Volesse il cielo che si interrompesse quella vita da bifolco che affatica il corpo e l’anima, specialmente d’estate che si sopravvive soltanto sotto un albero, se non vuoi bruciarti tutto il corpo sotto il sole. Non che d’inverno si stia tanto meglio, dato che ogni anno un pastore si indebolisce e muore per una malattia di petto, che fa esalare l’ultimo respiro e poi l’anima sale a Dio mentre il corpo terreno si disgrega. 
E ora Duccio addolorato resta sotto le fronde della quercia con un randello in mano per castigare i montoni in cerca di libertà e difendersi dal cane mordace che attenta alle sue terga. Il cane del padrone lo odia, è una bestia e sente che Duccio disprezza gli animali e averli intorno… e intanto Ambrogiotto è in bottega a Firenze che fa quel che più gli piace.
Le pecore si sono strette per entrare nel piccolo spazio d’ombra, l’agnellino con gli occhi chiusi succhia le mammelle della madre. Duccio non ha pace in cuor suo, pensa al momento che la sorte si è fatta avversa:  venendo a sapere per primo del messere di città, che ogni giorno alle tre del pomeriggio si infrattava per i campi a piedi, era  venuto a conoscere che era un maestro pittore con bottega a Firenze. Si chiamava Bencivieni di Pepo, detto Cenni. Per qualche giorno Duccio l’aveva seguito e infine aveva trovato il sentiero e il momento adatti a un incontro fortuito. Questo luogo era la piana della Rupecanina, con un masso regolare adatto al suo scopo, che si erge dal terreno come un dente ferino e presenta un lato liscio adatto a essere disegnato.
Duccio era consapevole di avere doti artistiche pari a quelle del cugino Ambrogiotto, era arrivato il momento di presentarle al maestro. Così si era avviato col carboncino in mano e mentre si stava avvicinando alla radura, e si preparava a dar spettacolo, vide in lontananza Ambrogiotto davanti al suo sasso mentre messer Cenni ammirava il cugino con grande soddisfazione. 
Maledetto il mio buon cuore e la mia bocca sempre aperta.
Nell’eccitazione della speranza (nota del trad.: quasi certezza) di fare bella figura con la sua idea, Duccio aveva raccontato il suo piano al cugino e quello aveva fatto suo il pensiero di Duccio. E ora Ambrogiotto stava disegnando una pecora, la più bella che si fosse mai vista al mondo intero. Anche messer Cenni aveva (nota del trad.: evidentemente) lo stesso pensiero e infatti il giorno dopo se ne era tornato a Firenze col cugino.
Cieco dalla rabbia, Duccio si era rinchiuso nella sua dimora dove abitava con la moglie, Donna Berta, che aveva cominciato a picchiare anche più volte al giorno senza che ella avesse fatto alcunché di spregevole. Duccio desiderava un diverso destino, e anche sua moglie.
Accadde che il padrone del latifondo rimanesse senza servi per portare il latte al mercato di San Pier Maggiore. Duccio si fece disponibile e partì col carro e il latte verso Firenze. Già sulla porta della città sente l’eco della fama dello strabiliante giovane che sta a bottega da Ser Cenni. 
Un cittadino, alla sua richiesta di informazioni per raggiungere la bottega, gli dice di andare a destra e poi a sinistra che poi da sé si sarebbe reso conto che era quella la bottega, quella con la folla davanti ad ammirare il giovane pittore prodigioso. Il cittadino aveva anche raccontato a Duccio che il giovane pittore aveva disegnato sulla tavola dell’osteria una mosca e il maestro aveva tentato invano di scacciarla. Questa notizia abbatte molto lo stato d’animo di Duccio che riparte frustando il cavallo come se fosse suo cugino.
Poco prima di arrivare alla bottega, da dietro l’angolo del palazzo, Duccio sente il mormorio della folla e capisce che è arrivato. Allora scorge il maestro in ammirazione di Ambrogiotto: “Suvvia Giotto, mostra a lor messeri la tua grande abilità…” 
“Subito, maestro Cimabue…”
Ormai è il suo prediletto… si chiamano reciprocamente con dei soprannomi... Mentre ha questi pensieri Duccio è livido dalla rabbia. 
Ambrogiotto con mano sicura delinea uno O perfetto e la folla mormora: “OOHH…”
Disegnare un cerchio è un’impresa così prodigiosa? Duccio rimugina incarognito. Verde in faccia, Duccio riparte per la campagna e torna a casa e si rinchiude in cantina. Pensa a lungo sul da farsi e alla fine dichiara a se stesso: Devo disegnare una nuova figura strabiliante, che mi faccia ascendere alla stessa fama di mio cugino e quella figura è il semicerchio. Duccio tenta più volte di delineare curve perfette poi, visto che non ci riesce, si prova con le spezzate e si rende conto di essere abile con gli angoli, ma disegnare angoli per altro, non è una abilità memorabile. 
Quindi devo trovare il modo di fare la quadratura del cerchio!
Esclama ad alta voce e il suo vocione forte sale dalla cantina.
La moglie Donna Berta non si capacita del motivo che ha spinto Duccio a rinchiudersi in cantina col carboncino, a disegnare segni senza senso e non comprende le parole che escono da quella bocca senza significato alcuno. Già i soldi scarseggiano perché il marito non lavora da diversi giorni, così la donna lascia il marito impazzito nella cantina e se ne va in città a servizio da Messer Cenni per racimolare qualcosa per sé. 

Questa mattina è in bottega che aspetta la comanda per il pranzo 
dal suo padrone e vede una tavola di legno con la O disegnata da Giotto.  La prende in mano, la gira e la rigira finché ne intuisce l’utilità:   infine il semicerchio non è altro che la metà del cerchio… E nel suo cervello comincia a rimuginare. Sale in cucina e prende la spada ricurva che l’avo di Messer Cenni aveva strappato a un saraceno in Terra Santa durante la Crociata.
Il cimelio è spezzato a metà e Donna Berta non lo può maneggiare agevolmente. Ma il cervello della donna è arguto e scende nella cantina del padrone dove trova due pezzi di legno senza schegge che lei può ben stringere in mano. Dopo averli legati con budella di pecora alle estremità del tagliente, Donna Berta si ingegna di adibire l’attrezzo alla cucina. Dopo un po’ che si è avvezza all’ondeggiamento della lama, si rallegra con se stessa per il felice ingegno e l’inaspettata utilità dell’oggetto. Prende una cipolla e un po’ di erbe aromatiche, li trita a minuzzoli fini con il semicerchio ammanigliato, poi le pone nel lardo del maiale e lo stesso trito fa con dei fegatini di pollo. Dopo di che, dato che Donna Berta è una donna attenta e precisa, scrive il procedimento (nota del tr.: allo scopo di ripeterlo più volte) per il pane coi fegatini di pollo tritati alla maniera toscana: … se vuoli fare morselli di pane  di epatelli di pollo per xx persone, togli due libre di epatelli di pollo, et togli due, cipolle grosse, bene capitute, et togli meça libra di acciuga a filetti, et togli meça libra di capperi, e togli ter libre di sugnaccio fresco sança sale, et togli metadella di brodo. 
Togli li epatelli ben lavati et serbali, della cipolla fae morselli picoli co lo semicerchio ammanigliato et mettili a sofrigere in sugnaccio fresco, quantità. Danne fragro con fronda ugnola di salvia officinale et poi togli li epatelli et ponili nel coculum et quando la cipolla ingialla tra’ne fuori li epatelli et ponili co li capperi et le acciughe et minuçali a trito co lo semicerchio ammanigliato et rimettili a cocere et adiungi ruberrimo vino, quantità, che fumighi da sé sola. Poni la metadella di brodo e lascia cocinare. Et quando è cocinato una grande dotta, aconcia il trito su fette di pane abrusciato et rinvenito nel brodo.

Se vuoli fare per più o meno persone, a questa medesima ragione. Hic et nunc!


lunedì 7 marzo 2016

haikai no ku 俳諧の句 "verso di un poema a carattere scherzoso"...

La campana del tempio tace,
ma il suono continua 
a uscire dai fiori.

Matsuo Basho (1644 – 1694)

Prospettiva

Il mio gatto
da lontano sembra
una tigre. 

Magda
è difficile
accettare ciò che è
contro natura. 

Rughe dei miei cinquanta anni

Condiscendente
la lampada, sincero
il sole giallo. 

Primavera

Acqua di marzo:
le rose del giardino
la ringraziano. 

Ingenuità puerile

Ecco la nonna Piera a flirtare 
con uno più vecchio 
perché lei è bellina e lui è ricco.
(9 agosto 2013)

R.I.P.

Rideva sempre...
Commentava, commosso,
il giorno dopo. 
(20 febbraio 2013)


La faccia che ricorda il crollo di una diga

Sono contraria alla chirurgia estetica
Nelle mie rughe lacrime e sorrisi.
                    



sabato 5 marzo 2016

De lo semicerchio e de lo strabiliante ingenio di Donna Berta

Lo scorso 5 marzo, un derattizzatore che prestava la sua opera nei sotterranei della Collegiata di San Giorgio a Tubinga, rinviene un documento vergato su carta pecudina, si tratta di un testo in volgare a caratteri gotici. Subito il prezioso reperto è stato consegnato alla locale e prestigiosa Università nelle mani dell'eminente medievalista Torinven Erfinder Von Warmwasser. 

De lo semicerchio e de lo strabiliante ingenio di Donna Berta

  Infra la umbra de la quercia, Duccio blastema seco mentre l’ultimo nato dorme, sub lo ventre de la matre sua. La altra bestiaglia gira e bruca le cecerbite sine cupidigia, il caldo de la ora nona di metà avosto abatte bestie e cristiani ma no est la calura che distorna Duccio. Ello ripensa co amaritudine a quello ke est addivenuto giorni addietro, a la benevola sorte ke lo abbe sfiorato et poi abbe abbrancato lo cugino suo. 
 In gran dispitto numera le fiate ke est addivenuta esta medesima conditione: onne tempo che Duccio cogita uno artificio, lo cugino suo precurrae con una opra mirabile e achatta uno beneficio, rimanendovi Duccio co uno pugnello di muscae. 
 Fue Duccio che abbe lavventura di incontrare lo magistro pinctore e subito abbe lo pensamento de fornire mostranza de lo talento suo acciò ke quello lo menae seco alla taberna pinctoria in Florentia. Deo gratias si interrumpta fuisse la vita da bevolco ke adlenta lo corpo e la anima, in specie destate ke si sopravvive soltanto sotto un albor, se no voli abraciare lo corpore da lo sole. Alsì de lo inverno no est tanto meglio, posto ke onne anno uno pastore in affanno lascia la buccia sua di uno morbo di petto, ke face esalare la alma et rattrappire lo corpo terreno. 
 Et ora Duccio adoliato resta sub la quercia fronzuta, co lo bastone nodoso per castigare li arieti, li più arditi in cerca di libertate et lo cane mordace ke attenta a le terga sue. Lo cane de lo padrone no lo ama, illo est bestiale, abe lo sentore de lo dispregio suo de le bestie… et Ambrogiotto est a la taberna in Florentia, a fare illo che più lo agrata.
 Le pecore omnie sono restricte ne lo angusto intervallo de la umbra, lo agnucolo bebe le menne de la matre co li oculi clausi. Duccio no abbe concordia ne lo core suo, cogita a lo istante illo de la adversa sua sorte: sappiendo ello per primo de lo messere di civitate, ke ogni die a la terza ora appedi se adfractava peli campi, erat venuto a canoscere ke era uno magistro pinctore ke abie taberna in Florentia. Lo nome suo erat Bencivieni di Pepo, detto Cenni. Pe aliqui diei Duccio abbe seguitato lo messere pinctore, alfine cogliendo lo sentiero e lo momento acconci a lo incontro fortuito. Esto est la piana de la Rupecanina, co uno saxo recto a la bisogna sua, ke se protende da la terra come uno dente di fiera et abe una parte leve pe la pinctura.
 Duccio canosceva la sua peritia essere equa a quella de lo cugino suo Ambrogiotto, ergo erat tempo di manifestarsi a lo magistro. Sic erat adito co lo carboncino ne la mano et mentre erat aprosemato a la radura, et si aprestava a lo spectacolo, vide in lontananza Ambrogiotto ante lo saxo suo et messer Cenni che mirava lo cugino somma cum satisfatione. 
 Maleficio su lo meo bono core et su la mea bucca sempiterne aperta.
 In fra lo summo ardore, pe la speme di bona resulta de lo pensamento suo, Duccio abe contato lo piano suo a lo cugino et ello lo abet defraudato de la sua pensagione. Nunc Ambrogiotto pinctava una pecora, la pulcherrima de tutto lo orbe terraqueo. Pure lo messer Cenni cogitao lo medesimo et lo die di poi se ne erat ito a Florentia co lo cugino.
 Caecato da lo livore, Duccio era romito ne la sua dimora dove albergava co la femina sua,  Donna Berta, ke ello batteva più fiate senza di ella mancanza alcuna. Ello bramava una novella sorte, et anco la mogliera.
 Fuisse ke lo padrone de li campi se rivenne sança famiglio pe recare lo latte a lo mercato di San Pier Maggiore. Duccio se pone a la causa et parte co lo carro et lo latte verso Florentia. In su la porta de la civita sente la eco de la fama de lo strabiliante iovine a la taberna pinctoria de Ser Cenni. 
 Uno civite, a la sua interrogatio su lo reperimento de la via de la taberna, rende lo contamento ke Duccio tenga la dritta et poscia volgesi a mancina, ke da sé medesimo avvederebbe ke era ella la taberna co lo populo dinnante, a mirare lo prodigio de lo iovane pinctore. 
Conta dipoi lo civite a Duccio: ello iovine pinctore abe pinctato su lo tavolaccio de la hostaria una musca et lo magistro abbe a tentare vanamente ella movere. Esta novella molto grava su la natura di Duccio, ke flagella lo cavallo come se fuisse lo cugino suo.
 Ante di addivenire a la taberna, de retro de lo angolo de la dimora, Duccio sente lo strepito de lo populo et comprende che in fine est giunto. Videt lo magistro ke lauda Ambrogiotto: “Giotto, suvvia mostra a lor messeri la somma tua peritia…” 
 “Immediate, magistro Cimabue…”
 Ello lo predilige… elli si nomano mutuamente co lo cognome de fraternità. In mentre de la pensagione Duccio est consunto da lo magno livore.
 Ambrogiotto cum mano sicura delinea uno O iusto et lo populo mormora: “OOHH…”
 Describere uno circulo est una impresa tam prodigiosa? Duccio se querula livido. Viridescente ne la facie sua, Duccio se trae a la campagna e torna a lo suo albergo, et se fa romito ne la sua cella vinaria. Longo cogita et infine lo intelletto suo emana esta sententia: Abeo a delineare una novella figura strabiliante, che approdi me medesimo a la istesima fama de lo cugino meo et ella figura est lo semicerchio…


Duccio tempta più fiate a pictare curvamine perfette, poscia sine eventi benevoli, se esperimenta cum li versi fracti et se avvede atto a li angoli, li quali facere, per hoc, no est gesto mirabile. 
 Ergo abeo  de rinvenire lo modo de rendere lo circolo uno quadro. 
 Dice cum magno clamore et da la cella vinaria sua ascende forte lo strepito de lo suo verbo.
 La mogliera Donna Berta no se intellige de la causa la quale abe spinto Duccio ne la cella vinaria, co lo carboncino, a pinctare signi sine forma iusta et de li verbi ke se ne ibano da la bocca sua sine significazione. Ella iam stat sine pecunia, imperoké lo marito suo non afatiga da multi diei, sic la femina relinque lo insano suo coniuge nela cella vinaria et se ne pervene a la civitate, a famiglia da Messer Cenni pe lo lucro suo di ella. 

 Esta mane ella est ne la taberna, in espectatio de lo mandato da lo domino suo et vede uno tavolaccio  de legno co la O pinctata di Giotto.  Preso ne le mane sue, lo torce et lo volve in fra che ella ne trae natura: ultime lo semicerchio est la medietate de lo cerchio… Et una pensagione principia ne lo caput suo. Ella ascende a la cocina et lesta trae lo gladio sinuoso carpito a lo moro da lo avo di Messer Cenni, regresso da la Terra Sancta de la Crociata.
 Esto cimelio est francto a la meça et donna Berta no lo strigne a la meglio. Ma lo cerebro de la femmina est vivido et ella descende a la cella vinaria de lo padrone suo e ne trae due parti di legno sine fractura accioké ella ben li tene ne le mano. Elli ligati co lo budello di pecora a le parti estreme de lo tagliente, donna Berta se ingegna di adibire lo attrezzo a la cocinagione. Postea ella se abilita a la onda de la lamina et se ralegra pe lo fausto pensamento et de la sua rara utilità. Trae una cipolla et erbe oficinalis quantità, et tutti li minuçola a trito co lo semicerchio ammanigliato, poscia le pone ne la sugna de lo maiale et la medesima risma fae co li epatelli di pollo.
 Poscia donna Berta, ke est femina accorta, verga uno scripto de cui la functione est facere de lo pane co li morselli di epatelli di pollo a la foggia de la toscana gente: … se vuoli fare morselli di pane  di epatelli di pollo per xx persone, togli due libre di epatelli di pollo, et togli due, cipolle grosse, bene capitute, et togli meça libra di acciuga a filetti, et togli meça libra di capperi, e togli ter libre di sugnaccio fresco sança sale, et togli metadella di brodo. 


Togli li epatelli ben lavati et serbali, della cipolla fae morselli picoli co lo semicerchio ammanigliato et mettili a sofrigere in sugnaccio fresco, quantità. Danne fragro con fronda ugnola di salvia officinale et poi togli li epatelli et ponili nel coculum et quando la cipolla ingialla tra’ne fuori li epatelli et ponili co li capperi et le acciughe et minuçali a trito co lo semicerchio ammanigliato et rimettili a cocere et adiungi ruberrimo vino, quantità, che fumighi da sé sola. Poni la metadella di brodo e lascia cocinare. Et quando è cocinato una grande dotta, aconcia il trito su fette di pane abrusciato et rinvenito nel brodo.

Se vuoli fare per più o meno persone, a questa medesima ragione. Hic et nunc!






venerdì 4 marzo 2016

Love is a fallacy (M. Schulman)


Il protagonista è uno studente pronto, calcolatore, perspicace, acuto e astuto. Abile e logico com'era, fu per lui un gioco convincere Peter, il suo condizionabile compagno di camera, a cedergli la sua ragazza, di cui si era invaghito, proponendogli uno scambio con un sontuoso pellicciotto tornato di gran moda.
I primi appuntamenti con Polly, la ex morosa di Peter -bella e deliziosa e intelligente non furono di studio: voleva capire quanto doveva impegnarsi per portarla ad un accettabile livello culturale.
Sentiamo come andò dalla viva voce del nostro giovane, ma logicamente superdotato, spasimante.
«Stasera vorrei parlarti, Polly»
«Parlare di che?»
«Di logica».
«Magnifico», disse Polly dopo averci pensato un minuto.
«La logica - dissi schiarendomi la voce - è la scienza del pensare. Per pensare correttamente, dobbiamo prima imparare a riconoscere le comuni fallacie logiche. Cominciamo con quella che va sotto il nome di dictio simpliciter. Per esempio: allenarsi fa bene; quindi tutti dovrebbero allenarsi».
«Sono d'accordo, fa senz'altro bene».
«Polly - le dissi gentilmente - l'argomento è una fallacia. Allenarsi fa bene è una generalizzazione assoluta. Se sei malato di cuore, allenarsi non fa bene. A molti il medico prescrive infatti di non fare sforzi. Bisogna precisare le condizioni alle quali l'allenarsi fa bene. Si deve dire che allenarsi di norma fa bene oppure che fa bene alla maggior parte delle persone. Altrimenti si commette una fallacia di dicto simpliciter. E' chiaro?»
«No, ma è affascinante. Continua, continua».
«Prendiamo allora la generalizzazione indebita. Io non so parlare francese, tu non sai parlare francese, Peter non sa parlare francese. Se ne deve concludere che nessuno del nostro campus universitario sa parlare francese».
«Nessuno, davvero?»
«Polly, è una fallacia! Sono troppo pochi i casi per giustificare la conclusione».
«Conosci altre fallacie? E' addirittura più divertente che andare a ballare».
«Prendiamo la post hoc. Senti un po': non invitare Bill alla gita. Ogni volta che viene con noi, piove».
«Ah, ne conosco anch'io una tale e quale. Si chiama Eulalia. Ogni volta che la invitiamo, infallibilmente...»
«Polly, Eulalia non causa la pioggia. Lei non ha nessuna relazione con la pioggia. Pecchi di post hoc ogni volta che la accusi di questo».
«Non lo farò più, te lo giuro. Sei arrabbiato con me? Dimmene ancora di queste fallacie».
«Vediamo le premesse contraddittorie. Eccone un caso. Se Dio è onnipotente, può creare un masso così pesante da non riuscire a sollevarlo?»
«Certo».
«Ma se può fare tutto, può anche sollevarlo, o no?»
«Sono confusa».
«E' naturale. Quando le premesse di un argomento si contraddicono, non ci può essere argomento. Se c'è una forza irresistibile, non ci può essere un oggetto inamovibile. Se c'è un oggetto inamovibile, non ci può essere una forza irresistibile. Capisci?»
Consultai l'orologio; si era fatto tardi e lei sembrava una testa a prova di logica. Il progetto pareva destinato al fallimento. Ma valutai che se avevo perso una sera, potevo sprecarne un'altra. Chi sa mai? Può darsi che nel fondo del cratere estinto del suo animo qualche brace covasse ancora.
La sera seguente, seduti sotto una quercia, la intrattenni sulla fallacia chiamata ad misericordiam, quella che commette un aspirante ad un posto di lavoro, il quale, alla domanda circa le sue qualifiche, risponde che ha moglie, sei bambini a casa, senza niente da mangiare, senza vestiti, senza scarpe, privi di letto per dormire, finito il gas per scaldarsi e l'inverno è alle porte.
«Oh, è terribile, davvero terribile. Mi viene da piangere. Hai un fazzoletto?»
«Sì è tragico, ma non è un argomento. Ha fatto solo appello al buon cuore, non ha dato nessuna risposta a quanto gli si chiedeva. Questa di chiama fallacia ad misericordiam».
«Asciugati le lacrime e senti quest'altra. Ti parlerò della falsa analogia. Eccone un esempio. Agli studenti dovrebbe essere consentito usare i libri di testo durante gli esami. In fondo i medici, gli avvocati, i muratori non hanno tutti i loro testi, i loro codici o i loro progetti che possono consultare durante il lavoro?»
«Questa è, credo, l'idea più brillante che abbia mai sentito», esclamò entusiasta Polly.
«Polly, il ragionamento è tutto sballato. I medici, gli avvocati e i carpentieri non consultano i testi per vedere quanto hanno imparato. Le situazioni sono completamente diverse e non si può fare una analogia tra la prima e le seconde».
«Resto comunque convinta che sarebbe una buona idea» disse Polly.
Esasperato, le proposi tuttavia il caso dell' ipotesi dell'irrealtà, illustrandola con questo esempio: se madame Curie non avesse lasciato una lastra fotografica in un cassetto con un pezzo di pechblenda, il mondo non avrebbe conosciuto il radio.
«E' vero, ho visto anche un film che raccontava la storia».
«Ti faccio notare che madame Curie avrebbe potuto scoprirlo in seguito. Avrebbe potuto scoprirlo qualcun altro. Chissà quante cose avrebbero potuto succedere. Non si può partire da un'ipotesi che non è vera e ricavarne qualche conclusione che sia giustificata».
«E vediamo l'ultima, proprio l'ultima, perché c'è un limite alla capacità di tolleranza. Si chiama avvelenare la sorgente. Due individui cominciano una discussione. Il primo esordisce dicendo: "Il mio avversario è notoriamente un mentitore. Non si creda ad una parola di quello che dirà..." Ora, Polly, pensa, pensa intensamente, che cosa non va bene in questo discorso?»
«Non è bello. Non è per niente bello. Che possibilità ha il secondo se il primo lo chiama bugiardo prima ancora che inizi a parlare?»
«Giusto. Il primo individuo ha avvelenato la sorgente prima che qualcuno vi potesse bere. Ha tagliato le gambe al suo concorrente prima della partenza. Sono fiero di te Polly. Vedi che non è poi così tanto difficile. Basta concentrarsi: pensare, esaminare, valutare».
Finalmente vedevo uno sprazzo di luce, un bagliore di intelligenza. Mi occorsero notti, ma ne valse la pena. Avevo fatto di Polly una donna logica. Le avevo insegnato a pensare. Il mio compito era stato assolto. E lei era pronta a diventare una moglie giusta per me, una signora perfetta per la mia casa e una madre per i miei figli. Era giunto il momento di passare dalla fase accademica a quella romantica. L'amavo come Pigmalione ama la donna perfetta che aveva forgiato. Decisi di dichiararmi.
«Polly, stasera non discuteremo di fallacie».
«Ah, no?» disse lei, amareggiata.
«Mia cara, abbiamo trascorso cinque sere assieme. Siamo stati splendidamente bene. E' chiaro che siamo fatti l'uno per l'altra».
«Generalizzazione affrettata» disse Polly raggiante.
«Chiedo scusa» dissi io.
«Generalizzazione affrettata e indebita» ripetè. «Come fai a dire che siamo fatti l'uno per l'altra sulla base di soli cinque incontri?»
Annuii divertito. La cara ragazza aveva assimilato bene le lezioni. «Mia cara, cinque volte son più che sufficienti. Sel resto, non devi mangiare tutta la torta per sapere se è buona».
«Falsa analogia» replicò prontamente. «Io non sono una torta; sono una ragazza».
Annuii un po' meno divertito. Anche troppo bene aveva imparato la lezione, la ragazza. Decidi di cambiare tattica. Ovviamente il migliore approccio era una semplice, netta, diretta dichiarazione d'amore. Mi fermai un istante mentre la mia massa cerebrale elaborava le parole giuste.
«Polly, ti amo. Tu per me sei tutto il mondo, e la luna e le stelle e le costellazioni. Ti prego, dimmi che vuoi stare con me, perché se mi dici che non mi vuoi, la vita per me non avrà più senso. Vagherò sulla faccia della terra, come un derelitto, vuoto e senza meta».
«Ad misericordiam» disse Polly.
Strinsi mani e denti. Non ero Pigmalione; ero Frankenstein, e il mostro mi teneva per la gola. Dovevo controllare il panico, mantenermi calmo a tutti i costi.
«Bene, Polly» dissi forzando un sorriso. «Hai certamente imparato bene le fallacie. Ma chi te le ha insegnate le fallacie, Polly?»
«Tu me le hai insegnate».
«Brava. Quindi tu mi devi qualcosa, vero? Se non fossi venuto con te non avresti mai imparato tutte queste cose».
«Ipotesi dell'irrealtà» disse lei prontamente.
Feci un bel respiro profondo. «Polly, non devi prendere tutto ciò troppo alla lettera. Queste sono cose da scuola. Sai che le cose che si imparano in classe non hanno niente a che fare con la vita».
«Dictio simpliciter» disse lei, agitando il suo ditino davanti a me.
Proprio così fece. Andai su tutte le furie. «Ma insomma, vuoi o non vuoi metterti con me?»
«No, non voglio».
«Perché no?» chiesi.
«Perché oggi ho promesso a Peter che mi sarei messa con lui».
Questa era davvero troppo. Dopo che lui me l'aveva promesso, dopo che aveva fatto un affare, dopo che mi aveva stretto la mano!
«Canaglia!» esplosi. «Non puoi andare con lui. E' un bugiardo. E' un imbroglione. E' un verme».
«Avvelenare la sorgente» disse Polly «E piantala di urlare. Penso che anche urlare sia fallace».
Con uno sforzo enorme di volontà cercai di modulare la mia voce. «Bene» dissi. «Tu sei una persona logica. Guardiamo allora logicamente alla faccenda. Come fai a scegliere Peter al posto mio? Guarda me: uno studente brillante, un fantastico intellettuale, un uomo con un futuro assicurato. Guarda Peter: uno senza arte né parte, che non si sa dove mangerà domani. Puoi darmi una sola ragione logica per stare con lui?»
«Certo che posso» dichiarò Polly. «Possiede una magnifica pelliccia».

giovedì 3 marzo 2016

Limerick or not ? This is the question


C’era un tizio di Zoagli 
che amava mangiare gli agli
ma scoprì che tra piantagli
e coltivagli e annaffiagli
faceva prima a compragli - gli agli -
quel tizio di Zoagli.

6 giugno 2014

mercoledì 2 marzo 2016

Carta Bianca


Scruto il foglio bianco
pensando a cosa dire
non scrivo ma divago
rimugino tra me
riguardo al poetare
non so ancor com'è
diverso è il proseggiare
per una come me.


martedì 1 marzo 2016

Nullafacenza




Nun tengo 'a fantasia 
di facere alcunché
me ne sto sola e penso
a chi ce l'ha con me.
Volendo potrei dire
magari far da me
ma ho scarsa fantasia 
di facere alcunché.

(CON LE DEBITE SCUSE AI NAPOLETANI)