Lo scorso 5 marzo, in questo spazio, è
stato pubblicato un testo in volgare che ha ricevuto il plauso dei pochi che ce
l'hanno fatta a leggerlo. Il
suddetto testo era riportato su una pergamena rinvenuta da un
derattizzatore nei sotterranei della Collegiata di San Giorgio a Tubinga.
Consegnato alla locale e prestigiosa Università, il prezioso reperto è
stato tradotto ad opera dell'eminente medievalista Torinven Erfinder Von
Warmwasser.
Inoltriamo con piacere per il sollazzo di coloro che fossero rimasti orfani di questa storia.
Sul semicerchio e sull'ingegno di Donna Berta
Sotto l’ombra di una quercia Duccio impreca tra sé mentre l’ultimo nato dorme protetto dal corpo di sua madre. Gli altri animali gironzolano e brucano le cicerbite svogliatamente, il caldo delle tre del pomeriggio a metà agosto abbatte bestie e cristiani, ma non è l’afa che disturba Duccio. Ripensa con amarezza a un fatto successo nei giorni passati, al colpo di fortuna che aveva sfiorato lui per poi colpire definitivamente suo cugino.
Indispettito ripensa alle innumerevoli
volte che questo è successo: ogniqualvolta che a Duccio viene in mente
qualcosa di spettacolare, suo cugino lo anticipa e lo fa meglio ricevendo un
beneficio, mentre Duccio rimane con un pugno di mosche in mano.
Era stato Duccio ad incontrare
casualmente il maestro pittore e subito aveva pensato di esibire in qualche
modo il suo talento perché quello lo portasse con sé a bottega a Firenze.
Volesse il cielo che si interrompesse
quella vita da bifolco che affatica il corpo e l’anima, specialmente d’estate
che si sopravvive soltanto sotto un albero, se non vuoi bruciarti tutto il
corpo sotto il sole. Non che d’inverno si stia tanto meglio, dato che ogni anno
un pastore si indebolisce e muore per una malattia di petto, che fa esalare
l’ultimo respiro e poi l’anima sale a Dio mentre il corpo terreno si
disgrega.
E ora Duccio addolorato resta sotto le
fronde della quercia con un randello in mano per castigare i montoni in cerca
di libertà e difendersi dal cane mordace che attenta alle sue terga. Il cane
del padrone lo odia, è una bestia e sente che Duccio disprezza gli animali e
averli intorno… e intanto Ambrogiotto è in bottega a Firenze che fa quel che
più gli piace.
Le pecore si sono strette per entrare nel
piccolo spazio d’ombra, l’agnellino con gli occhi chiusi succhia le mammelle
della madre. Duccio non ha pace in cuor suo, pensa al momento che la sorte si è
fatta avversa: venendo a sapere per primo del messere di città, che ogni
giorno alle tre del pomeriggio si infrattava per i campi a piedi, era
venuto a conoscere che era un maestro pittore con bottega a Firenze. Si
chiamava Bencivieni di Pepo, detto Cenni. Per qualche giorno Duccio l’aveva seguito
e infine aveva trovato il sentiero e il momento adatti a un incontro fortuito.
Questo luogo era la piana della Rupecanina, con un masso regolare adatto al suo
scopo, che si erge dal terreno come un dente ferino e presenta un lato liscio
adatto a essere disegnato.
Duccio era consapevole di avere doti
artistiche pari a quelle del cugino Ambrogiotto, era arrivato il momento di
presentarle al maestro. Così si era avviato col carboncino in mano e mentre si
stava avvicinando alla radura, e si preparava a dar spettacolo, vide in
lontananza Ambrogiotto davanti al suo sasso mentre messer Cenni ammirava il
cugino con grande soddisfazione.
Maledetto il mio buon cuore e la mia
bocca sempre aperta.
Nell’eccitazione della speranza (nota del
trad.: quasi certezza) di fare bella figura con la sua idea, Duccio aveva
raccontato il suo piano al cugino e quello aveva fatto suo il pensiero di
Duccio. E ora Ambrogiotto stava disegnando una pecora, la più bella che si
fosse mai vista al mondo intero. Anche messer Cenni aveva (nota del trad.:
evidentemente) lo stesso pensiero e infatti il giorno dopo se ne era tornato a
Firenze col cugino.
Cieco dalla rabbia, Duccio si era
rinchiuso nella sua dimora dove abitava con la moglie, Donna Berta, che aveva
cominciato a picchiare anche più volte al giorno senza che ella avesse fatto
alcunché di spregevole. Duccio desiderava un diverso destino, e anche sua
moglie.
Accadde che il padrone del latifondo
rimanesse senza servi per portare il latte al mercato di San Pier Maggiore.
Duccio si fece disponibile e partì col carro e il latte verso Firenze. Già
sulla porta della città sente l’eco della fama dello strabiliante giovane che
sta a bottega da Ser Cenni.
Un cittadino, alla sua richiesta di
informazioni per raggiungere la bottega, gli dice di andare a destra e poi a
sinistra che poi da sé si sarebbe reso conto che era quella la bottega, quella
con la folla davanti ad ammirare il giovane pittore prodigioso. Il
cittadino aveva anche raccontato a Duccio che il giovane pittore aveva disegnato sulla tavola
dell’osteria una mosca e il maestro aveva tentato invano di scacciarla. Questa notizia abbatte molto lo stato
d’animo di Duccio che riparte frustando il cavallo come se fosse suo cugino.
Poco prima di arrivare alla bottega, da
dietro l’angolo del palazzo, Duccio sente il mormorio della folla e capisce che
è arrivato. Allora scorge il maestro in ammirazione di Ambrogiotto: “Suvvia
Giotto, mostra a lor messeri la tua grande abilità…”
“Subito, maestro Cimabue…”
Ormai è il suo prediletto… si chiamano
reciprocamente con dei soprannomi... Mentre ha questi pensieri Duccio è livido dalla rabbia.
Ambrogiotto con mano sicura delinea uno O
perfetto e la folla mormora: “OOHH…”
Disegnare un cerchio è un’impresa così
prodigiosa? Duccio rimugina incarognito. Verde in
faccia, Duccio riparte per la campagna e torna a casa e si rinchiude in
cantina. Pensa a lungo sul da farsi e alla fine dichiara a se stesso: Devo
disegnare una nuova figura
strabiliante, che mi faccia ascendere alla stessa fama di mio cugino e quella
figura è il semicerchio. Duccio tenta più volte di delineare curve
perfette poi, visto che non ci riesce, si prova con le spezzate e si rende
conto di essere abile con gli angoli, ma disegnare angoli per altro, non è una
abilità memorabile.
Quindi devo trovare il modo di fare la
quadratura del cerchio!
Esclama ad alta voce e il suo vocione
forte sale dalla cantina.
La moglie Donna Berta non si capacita del
motivo che ha spinto Duccio a rinchiudersi in cantina col carboncino, a
disegnare segni senza senso e non comprende le parole che escono da quella
bocca senza significato alcuno. Già i soldi scarseggiano perché il marito non
lavora da diversi giorni, così la donna lascia il marito impazzito nella
cantina e se ne va in città a servizio da Messer Cenni per racimolare qualcosa
per sé.
Questa mattina è in bottega che aspetta la comanda per il pranzo dal suo padrone e vede una tavola di legno con la O disegnata da Giotto. La prende in mano, la gira e la rigira finché ne intuisce l’utilità: infine il semicerchio non è altro che la metà del cerchio… E nel suo cervello comincia a rimuginare. Sale in cucina e prende la spada ricurva che l’avo di Messer Cenni aveva strappato a un saraceno in Terra Santa durante la Crociata.
Il cimelio è spezzato a metà e Donna
Berta non lo può maneggiare agevolmente. Ma il cervello della donna è arguto e
scende nella cantina del padrone dove trova due pezzi di legno senza schegge
che lei può ben stringere in mano. Dopo averli legati con budella di pecora
alle estremità del tagliente, Donna Berta si ingegna di adibire l’attrezzo alla
cucina. Dopo un po’ che si è avvezza all’ondeggiamento della lama, si rallegra
con se stessa per il felice ingegno e l’inaspettata utilità dell’oggetto.
Prende una
cipolla e un po’ di erbe aromatiche, li trita a minuzzoli fini con il
semicerchio ammanigliato, poi le pone nel lardo del maiale e lo stesso trito fa
con dei fegatini di pollo. Dopo di che, dato che Donna Berta è una donna
attenta e precisa, scrive il procedimento (nota del tr.: allo scopo di
ripeterlo più volte) per il pane coi fegatini di pollo tritati alla maniera
toscana: … se vuoli fare morselli di pane di epatelli di pollo
per xx persone, togli due libre di epatelli di pollo, et togli due, cipolle
grosse, bene capitute, et togli meça libra di acciuga a filetti, et togli meça
libra di capperi, e togli ter libre di sugnaccio fresco sança sale, et togli
metadella di brodo.
Togli li
epatelli ben lavati et serbali, della cipolla fae morselli picoli co lo
semicerchio ammanigliato et mettili a sofrigere in sugnaccio fresco, quantità.
Danne fragro con fronda ugnola di salvia officinale et poi togli li epatelli et
ponili nel coculum et quando la cipolla ingialla tra’ne fuori li epatelli et
ponili co li capperi et le acciughe et minuçali a trito co lo semicerchio
ammanigliato et rimettili a cocere et adiungi ruberrimo vino, quantità, che
fumighi da sé sola. Poni la metadella di brodo e lascia cocinare. Et quando è
cocinato una grande dotta, aconcia il trito su fette di pane abrusciato et
rinvenito nel brodo.
Se vuoli
fare per più o meno persone, a questa medesima ragione. Hic et nunc!
Nessun commento:
Posta un commento
Il tuo commento è in via di approvazione