sabato 12 marzo 2016

Un volgare medievale


Lo scorso 5 marzo, in questo spazio, è stato pubblicato un testo in volgare che ha ricevuto il plauso dei pochi che ce l'hanno fatta a leggerlo. Il suddetto testo era riportato su una pergamena rinvenuta da un derattizzatore nei sotterranei della Collegiata di San Giorgio a Tubinga. Consegnato alla locale e prestigiosa Università, il prezioso reperto è stato tradotto ad opera dell'eminente medievalista Torinven Erfinder Von Warmwasser. 

Inoltriamo con piacere per il sollazzo di coloro che fossero rimasti orfani di questa storia.

Sul semicerchio e sull'ingegno di Donna Berta

Sotto l’ombra di una quercia Duccio impreca tra sé mentre l’ultimo nato dorme protetto dal corpo di sua madre. Gli altri animali gironzolano e brucano le cicerbite svogliatamente, il caldo delle tre del pomeriggio a metà agosto abbatte bestie e cristiani, ma non è l’afa che disturba Duccio. Ripensa con amarezza a un fatto successo nei giorni passati, al colpo di fortuna che aveva sfiorato lui per poi colpire definitivamente suo cugino.
Indispettito ripensa alle innumerevoli volte  che questo è successo: ogniqualvolta che a Duccio viene in mente qualcosa di spettacolare, suo cugino lo anticipa e lo fa meglio ricevendo un beneficio, mentre Duccio rimane con un pugno di mosche in mano. 
Era stato Duccio ad incontrare casualmente il maestro pittore e subito aveva pensato di esibire in qualche modo il suo talento perché quello lo portasse con sé a bottega a Firenze.    
Volesse il cielo che si interrompesse quella vita da bifolco che affatica il corpo e l’anima, specialmente d’estate che si sopravvive soltanto sotto un albero, se non vuoi bruciarti tutto il corpo sotto il sole. Non che d’inverno si stia tanto meglio, dato che ogni anno un pastore si indebolisce e muore per una malattia di petto, che fa esalare l’ultimo respiro e poi l’anima sale a Dio mentre il corpo terreno si disgrega. 
E ora Duccio addolorato resta sotto le fronde della quercia con un randello in mano per castigare i montoni in cerca di libertà e difendersi dal cane mordace che attenta alle sue terga. Il cane del padrone lo odia, è una bestia e sente che Duccio disprezza gli animali e averli intorno… e intanto Ambrogiotto è in bottega a Firenze che fa quel che più gli piace.
Le pecore si sono strette per entrare nel piccolo spazio d’ombra, l’agnellino con gli occhi chiusi succhia le mammelle della madre. Duccio non ha pace in cuor suo, pensa al momento che la sorte si è fatta avversa:  venendo a sapere per primo del messere di città, che ogni giorno alle tre del pomeriggio si infrattava per i campi a piedi, era  venuto a conoscere che era un maestro pittore con bottega a Firenze. Si chiamava Bencivieni di Pepo, detto Cenni. Per qualche giorno Duccio l’aveva seguito e infine aveva trovato il sentiero e il momento adatti a un incontro fortuito. Questo luogo era la piana della Rupecanina, con un masso regolare adatto al suo scopo, che si erge dal terreno come un dente ferino e presenta un lato liscio adatto a essere disegnato.
Duccio era consapevole di avere doti artistiche pari a quelle del cugino Ambrogiotto, era arrivato il momento di presentarle al maestro. Così si era avviato col carboncino in mano e mentre si stava avvicinando alla radura, e si preparava a dar spettacolo, vide in lontananza Ambrogiotto davanti al suo sasso mentre messer Cenni ammirava il cugino con grande soddisfazione. 
Maledetto il mio buon cuore e la mia bocca sempre aperta.
Nell’eccitazione della speranza (nota del trad.: quasi certezza) di fare bella figura con la sua idea, Duccio aveva raccontato il suo piano al cugino e quello aveva fatto suo il pensiero di Duccio. E ora Ambrogiotto stava disegnando una pecora, la più bella che si fosse mai vista al mondo intero. Anche messer Cenni aveva (nota del trad.: evidentemente) lo stesso pensiero e infatti il giorno dopo se ne era tornato a Firenze col cugino.
Cieco dalla rabbia, Duccio si era rinchiuso nella sua dimora dove abitava con la moglie, Donna Berta, che aveva cominciato a picchiare anche più volte al giorno senza che ella avesse fatto alcunché di spregevole. Duccio desiderava un diverso destino, e anche sua moglie.
Accadde che il padrone del latifondo rimanesse senza servi per portare il latte al mercato di San Pier Maggiore. Duccio si fece disponibile e partì col carro e il latte verso Firenze. Già sulla porta della città sente l’eco della fama dello strabiliante giovane che sta a bottega da Ser Cenni. 
Un cittadino, alla sua richiesta di informazioni per raggiungere la bottega, gli dice di andare a destra e poi a sinistra che poi da sé si sarebbe reso conto che era quella la bottega, quella con la folla davanti ad ammirare il giovane pittore prodigioso. Il cittadino aveva anche raccontato a Duccio che il giovane pittore aveva disegnato sulla tavola dell’osteria una mosca e il maestro aveva tentato invano di scacciarla. Questa notizia abbatte molto lo stato d’animo di Duccio che riparte frustando il cavallo come se fosse suo cugino.
Poco prima di arrivare alla bottega, da dietro l’angolo del palazzo, Duccio sente il mormorio della folla e capisce che è arrivato. Allora scorge il maestro in ammirazione di Ambrogiotto: “Suvvia Giotto, mostra a lor messeri la tua grande abilità…” 
“Subito, maestro Cimabue…”
Ormai è il suo prediletto… si chiamano reciprocamente con dei soprannomi... Mentre ha questi pensieri Duccio è livido dalla rabbia. 
Ambrogiotto con mano sicura delinea uno O perfetto e la folla mormora: “OOHH…”
Disegnare un cerchio è un’impresa così prodigiosa? Duccio rimugina incarognito. Verde in faccia, Duccio riparte per la campagna e torna a casa e si rinchiude in cantina. Pensa a lungo sul da farsi e alla fine dichiara a se stesso: Devo disegnare una nuova figura strabiliante, che mi faccia ascendere alla stessa fama di mio cugino e quella figura è il semicerchio. Duccio tenta più volte di delineare curve perfette poi, visto che non ci riesce, si prova con le spezzate e si rende conto di essere abile con gli angoli, ma disegnare angoli per altro, non è una abilità memorabile. 
Quindi devo trovare il modo di fare la quadratura del cerchio!
Esclama ad alta voce e il suo vocione forte sale dalla cantina.
La moglie Donna Berta non si capacita del motivo che ha spinto Duccio a rinchiudersi in cantina col carboncino, a disegnare segni senza senso e non comprende le parole che escono da quella bocca senza significato alcuno. Già i soldi scarseggiano perché il marito non lavora da diversi giorni, così la donna lascia il marito impazzito nella cantina e se ne va in città a servizio da Messer Cenni per racimolare qualcosa per sé. 

Questa mattina è in bottega che aspetta la comanda per il pranzo 
dal suo padrone e vede una tavola di legno con la O disegnata da Giotto.  La prende in mano, la gira e la rigira finché ne intuisce l’utilità:   infine il semicerchio non è altro che la metà del cerchio… E nel suo cervello comincia a rimuginare. Sale in cucina e prende la spada ricurva che l’avo di Messer Cenni aveva strappato a un saraceno in Terra Santa durante la Crociata.
Il cimelio è spezzato a metà e Donna Berta non lo può maneggiare agevolmente. Ma il cervello della donna è arguto e scende nella cantina del padrone dove trova due pezzi di legno senza schegge che lei può ben stringere in mano. Dopo averli legati con budella di pecora alle estremità del tagliente, Donna Berta si ingegna di adibire l’attrezzo alla cucina. Dopo un po’ che si è avvezza all’ondeggiamento della lama, si rallegra con se stessa per il felice ingegno e l’inaspettata utilità dell’oggetto. Prende una cipolla e un po’ di erbe aromatiche, li trita a minuzzoli fini con il semicerchio ammanigliato, poi le pone nel lardo del maiale e lo stesso trito fa con dei fegatini di pollo. Dopo di che, dato che Donna Berta è una donna attenta e precisa, scrive il procedimento (nota del tr.: allo scopo di ripeterlo più volte) per il pane coi fegatini di pollo tritati alla maniera toscana: … se vuoli fare morselli di pane  di epatelli di pollo per xx persone, togli due libre di epatelli di pollo, et togli due, cipolle grosse, bene capitute, et togli meça libra di acciuga a filetti, et togli meça libra di capperi, e togli ter libre di sugnaccio fresco sança sale, et togli metadella di brodo. 
Togli li epatelli ben lavati et serbali, della cipolla fae morselli picoli co lo semicerchio ammanigliato et mettili a sofrigere in sugnaccio fresco, quantità. Danne fragro con fronda ugnola di salvia officinale et poi togli li epatelli et ponili nel coculum et quando la cipolla ingialla tra’ne fuori li epatelli et ponili co li capperi et le acciughe et minuçali a trito co lo semicerchio ammanigliato et rimettili a cocere et adiungi ruberrimo vino, quantità, che fumighi da sé sola. Poni la metadella di brodo e lascia cocinare. Et quando è cocinato una grande dotta, aconcia il trito su fette di pane abrusciato et rinvenito nel brodo.

Se vuoli fare per più o meno persone, a questa medesima ragione. Hic et nunc!


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