Su Yotube il sunto della serata con i vincitori delle varie categorie partecipanti al premio Italia Medievale.
Vi troverete abili musicisti, squisiti artigiani, degni eredi dei Longobardi, scrittori di storie del passato - su carta e sul campo.
In fondo alla fila I premiati del premio Philobiblon. Ci sono anche io. Se vi pare.
https://youtu.be/806dNeUAoe4
lunedì 28 novembre 2016
lunedì 21 novembre 2016
Che male vi ha fatto la povera Anna...
... ebbe a esclamare via mail, sconsolata, Silvia Costantino...
A me niente, poerina... però mi chiedo perché mai un libro che tratta tutti i protagonisti con la stessa attenzione, compresa, più o meno, la stessa quantità di pagine, si debba chiamare Anna Karenina e non Nullafacenza della società Pietroburghese di fine ottocento.
Inoltre non succede niente che non sia prevedibile perché che Levin si metteva comunque con la Kitty era telefonato quando lei va alle terme; che Oblonskij continuava a fare le corna alla moglie era citofonato già mentre cercava di farci pace. Meno scontato il povero cornuto, Karenin, descritto come brutto e antipatico, mi pare l'unico personaggio diverso: non ripudia la moglie anzi le permetterebbe di continuare a vivere alle sue spalle dietro una felicità di facciata. Ché gli altri erano meno superficiali e meno legati alle apparenze di lui?
Alla pagina 446 mi sono stufata, tanto sapevo come andava a finire... avevo visto lo sceneggiato con Lea Massari...
Salverei l'incipit se il citazionismo smodato non ne avesse deprezzato il valore.
Affinché la dieta rimanesse col giusto apporto calorico ho cambiato russo e ho iniziato a leggere Le Anime Morte di Gogol. Poche pagine ma già l'assenza di spiegazioni demagogiche o di leziosità romantiche o di piagnistei drammatici unita a una diffusa ironia, situazioni credibili e indizi interessanti mi fanno ben sperare. Ho già un brano preferito: quando Cicikov si perde e tutto inzaccherato trova ospitalità nella campagna sperduta presso la vecchia che nicchia all'idea di vendere morti. Quella vecchia che tiene da parte... una cappotta scucita, destinata col tempo a convertirsi in vestito... e la cappotta è destinata a giacere ancora un pezzo così scucita, fino al giorno che non passerà per disposizione testamentaria alla nipote d'una qualche nipote-cugina... sono io.
Non ho ancora intenzione di fare testamento ma di cose scucite nei cassetti ne conservo a iosa.
Ora, se Gogol e Puskin hanno inventato la letteratura russa e Dostojewsky e Tolstoi ne sono gli allievi putativi, per me andavano rimandati a settembre. A me è piaciuto molto anche la Figlia del Capitano ma Delitto e castigo non mi ha entusiasmato. Il tormento di pochi giorni, accompagnato dal perché e dal percome senza traccia di pentimento, si trascina per 780 pagine ma il castigo si conclude frettolosamente nella deportazione in Siberia dove un anno di vita dei due protagonisti è risolto in venti pagine.
Di sicuro è colpa mia, perché in passato avevo letto a fatica anche In morte di Ivan Ilic che pure è corto.
Continuerò comunque a seguire la dieta e proverò a leggere Memorie dal sottosuolo, che almeno nel titolo è accattivante.
Guerra e Pace non lo apro neanche.
venerdì 18 novembre 2016
Della serie Dieta e Disciplina: sulla necessarietà dell'esperienza psichedelica
Alla fine di giugno il mio nutrizionista letterario mi aveva
proposto una dieta personalizzata a base di esperienza psichedelica (da assumere per via cartacea),
non so se pensasse che l'assaggio narrativo mi avrebbe predisposto a mordere un
funghetto, tuttavia, siccome non sono disciplinata, ho dovuto almeno seguire la
dieta che consisteva in una triade siffatta: Le porte della percezione di
Huxley, Le lettere dello Yage di Burroughs e Ginzberg e Abbacinante di
Cartarescu.
Ho letto i primi
due ma non ne ho tratto grande soddisfazione.
L'ingegno e la penna di Huxley mi sembrano
superbi, ma il tentativo di convincere che il viaggio psichedelico giovi alla
medicina e, in subordine, all'arte mi pare debole. Pone a presupposto ciò che
invece dovrebbe essere il punto di arrivo: che il cervello del matto e quello
del sano funzionino in modo diverso. In realtà questa sarebbe stata la tesi da
dimostrare ma negli anni successivi si è rivelata un assunto sbagliato. Anche se
misura e registra tutti gli effetti dei suoi esperimenti non si può affermare a
buon giudizio che Aldous segua un metodo scientifico alla maniera di
Galileo.
Io ho invece percepito forte e chiara la
volontà da parte dell'autore di avvalorare la propria tesi e cioè che l'uso
delle sostanze psicoattive sia utile per indagare la psiche alterata ma
soprattutto per acuire il talento artistico. Mi sembra però che si pervenga a
un unico risultato, non misurabile (e quindi fuori dal metodo sperimentale) per
altro paragonabile per valore scientifico alla scoperta dell'acqua calda:
l'alterazione fungina permette di vedere le cose nella loro cosezza.
Pur trovandolo un valido argomentatore,
Huxley risulta troppo sofista per i miei gusti.
Le sue conclusioni sono giustificabili soltanto, ammessa e non concessa la liceità del metodo, per le scarse conoscenze dell'epoca sul sistema nervoso e degli effetti su di esso di sostanze esogene. Oggi che è nota l'anatomia e la fisiologia del cervello e l'azione farmacologia delle sostanze d'abuso, soprattutto gli effetti dannosi permanenti, è capzioso e surrettizio propugnare l'esperienza psichedelica come
metodo per produrre capisaldi narrativi.
Ne Il viaggio nel grande verde (come viene confidenzialmente chiamato lo yage) non ho trovato invece alcun interesse né per gli argomenti né per le argomentazioni.
Mi ha colpito soltanto una latente ingenuità e mi ha urtato una certa modalità cazzeggio poco interessanti. Non mi sono immedesimata in ciò
che leggevo e non ho avuto pulsione né urgenza di continuare a leggere. Del
resto non ho mai abusato di sostanze d'abuso, mi sono affrancata dalla nicotina
e indugio nell'alcol a stomaco pieno, non ho intenzione di cambiare abitudini e
mi bastano le mie endorfine: che ho in comune coi due compari? Il grande verde
mi ha stufato immediatamente anche per la forma epistolare che mi annoia. Non
sono riuscita a leggere neanche La società letteraria di Guernsey benché la Shaffer abbia una certa vivacità di scrittura.
Certo se il succo denso dell'opera arriva
a metà del libro il mio giudizio è discutibile perché frutto di analisi
incompleta. Le mie ultime speranze sono riposte in Cartarescu e che Dio me la mandi buona...
giovedì 6 ottobre 2016
Che tristezza la democrazia virtuale!
Sul FB di mio marito una tizia che parla (male) del M5S scrive res sic stantibus e il povero, garbatamente la corregge: ...rebus...non mi ricordo neanche perché ma si dice rebus stantibus... - ma lei insiste stizzita: si può dire res sic stantibus e anche rebus stantibus, comunque non è quello il problema. Buona notte. Capisco che la peristalsi dentro il movimento è cruciale per il nostro paese ma, Dio santo, non sparate tutte queste cazzate sul web, i vostri figli vi guardano e, purtroppo, imparano. Per inciso la signora dichiara di avere frequentato l'università di Parma, sicuramente non si sarà laureata in lettere antiche... ma nemmeno moderne... ma non ha fatto neanche il liceo scientifico... ma neanche le magistrali... ma non ha neanche una molecola di umiltà o un brincello di autocritica e comunque bastava leggere wikipedia perché lì c'è, la frase esatta.
https://it.wikipedia.org/wiki/Rebus_sic_stantibus
ma c'è anche sulla Treccani
http://www.treccani.it/vocabolario/rebus-sic-stantibus/
altalex lo capovolge
http://www.altalex.com/tag/sic-stantibus-rebus
Ma è come la proprietà commutativa della somma: il risultato non cambia.
Posso immaginare che la tizia invece abbia consultato questa pagina (nel caso se l'è scelta perché è la terza in ordine di comparizione su google)
http://mymemory.translated.net/it/Latin/Italian/res-sic-stantibus
e si sia fermata alla prima riga ma se avesse scorso verso il basso avrebbe capito che si tratta di contributi del pubblico (spesso ignorante, qui soltanto nella prima riga) e che in tutti gli altri casi res è sempre concordato con un nominativo. Quindi se res è nominativo singolare non può stare con stantibus che è ablativo plurale. Si chiama concordanza del caso, siora. Sic.
sabato 24 settembre 2016
Premio Philobiblon
Il mio racconto De lo semicerchio e de lo ingenio di Donna Berta si è classificato terzo al Premio Philobiblon organizzato dall'Associazione Culturale Italia Medievale.
martedì 13 settembre 2016
mercoledì 31 agosto 2016
giovedì 25 agosto 2016
domenica 21 agosto 2016
Giornalisti
10: 20 su CARTE SCOPERTE - cosa c'è sui giornali di TG COM24
La giornalista commenta un articolo di Sallusti sulla copertura della statua della Madonna in uno stand di una casa editrice al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione.
Legge che Maria è definita "la donna per antonomasìa..."
A parte la discutibile alfabetizzazione della signora (italiana, almeno all'apparenza), mi chiedo cosa vada a fare al Meeting di Comunione e Liberazione uno che non si aspetta di trovare icone cattoliche.
La giornalista commenta un articolo di Sallusti sulla copertura della statua della Madonna in uno stand di una casa editrice al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione.
Legge che Maria è definita "la donna per antonomasìa..."
A parte la discutibile alfabetizzazione della signora (italiana, almeno all'apparenza), mi chiedo cosa vada a fare al Meeting di Comunione e Liberazione uno che non si aspetta di trovare icone cattoliche.
domenica 14 agosto 2016
Ritorno all’isola
Quando uno è supino in mezzo al mare, inerte, come smembrato, faccia al cielo e testa tra le nuvole può essere morituro per imminente, ineluttabile, ingestione di acqua o sdraiato sulla vetta di un'isola a scrutare l'imperscrutabile.
Io non so immergermi e non è che non ci abbia provato. Sono andata sotto di quaranta centimetri col boccaglio, a riva. Mi assalì una costrizione claustrofobica che mi provocò una forte tensione emotiva e io non sopporto la tensione, non mi va di turbare inutilmente il mio stabile sistema neurovegetativo.
Così continuo a privarmi della meravigliosa visione della vita che ferve sotto il pelo dell'acqua. Il brulichio marino, che mi incentiverebbe a esplorare sotto il pelo dell’acqua tanto quanto il formicolio a grattarmi, rimane quindi, per me, un mistero.
Invece sono sempre stata perfettamente in grado di inerpicarmi per un pendio, niente di difficile, né ferrate né free climbing, un semplice movimento di piedi alimentato dallo sforzo di cosce e polpacci ed equilibrato dal ritmico ciondolìo degli arti superiori. Con scarpe tecniche non troppo pesanti, pantaloni sportivi presi al mercato e lo zaino dismesso da uno della mia prole, posso affrontare anche pendici vertiginose: se non guardo troppo sotto non ho neanche un cedimento.
Ma oggi, addentrarmi nell'aria sottile del Monte Le Penne, mi ha provocato uno stordimento che va ben oltre le vertigini o la rarefazione dell'ossigeno: il silenzio poderoso e la robusta spazialità del cielo consolidano la mia sensazione di essere sola nell’universo procurandomi l’appagamento di un soliloquio inseguito e raggiunto.
Sono di nuovo qui, sul cocuzzolo dell'ex colonia agricola che non è passato molto tempo dal primo viaggio ma il ritorno all'isola è accompagnato da una intensa onda emotiva.
L'orario del traghetto è rimasto lo stesso, la solita levataccia al buio solo che allora era umido e freddino e il progetto estivo era lontano, ora è ancora caldo e siccitoso e potremo fare il bagno. E chi lo schioda Enzo dalla spiaggia?
" Accidenti… peccato per il brutto tempo ma abbiamo prodotto tanto proprio perché siamo stati costretti in casa a scrivere. Meglio così… no… perché se è bel tempo, io non riesco a venire via dall'acqua...” Ebbe a dichiarare allora il nostro con un entusiasmo contenuto che mal si concilia con l’immagine che gira sul web di lui sorridente da un orecchio all'altro, immerso in una limpida acqua isolana, che è eloquente più di quanto possa esserlo qualunque sua dichiarazione verbale.
Scrivere a Capraia suggerisce la locandina. In queste riunioni estemporanee si conosce un po' di gente e poi non è detto che ci si vada a genio subito e forse neanche dopo. Ci unisce per un po’ la passione comune di scrivere e su questo costruiamo una relazione breve ma intensa, che può, ma non per forza, diventare a distanza oppure affievolirsi poco a poco. Può capitare che ci si riveda, come oggi, c’è ancora spazio, tempo e luogo per nuove conoscenze e io comincerò diligentemente a relazionarmi con apparente dispendio di energia per la consistente emissione di fiato. In realtà non fatico affatto, è una dote naturale.
“Lei ha due polmoni fino al buco del culo.” Diceva il medico al mio babbo, quando lo auscultava.
“L’è tutta i’ su’ babbo con la parrucca.” Diceva la mamma quando descriveva me bambina. E io somiglio troppo al mio babbo, purtroppo anche di dentro.
Stamani, al porto, mentre stringevo mani di sconosciuti compagni di nuove avventure narrative, ricordavo a me stessa di aver giurato di prestare maggiore attenzione ai sentimenti altrui. I soliti buoni propositi dopo uno scampato pericolo: mangiare meglio, muoversi di più, appagare il marito, ascoltare i figli, dare relazione alle amiche, scaricare gli assilli del lavoro per organizzare meglio la vita familiare. Ricavare spazio per respirare. Promesse mantenute dieci giorni, un vero record. Il ritorno all'isola dopo un’estate funesta è un evento catartico, adatto per contrattare con me stessa nuovi buoni propositi da non rispettare, giuramento verbale per rimanere salda nelle mie sacrosante decisioni vacillanti.
Come sia possibile rimanere saldi qui, poi non lo so: quassù tutto è sospeso, sono sullo stesso piano del cielo con le planate dei gabbiani tra le nuvole spazzate dai venti isolani, mie compagne le mucche. Se mi chiedessero che cosa c’è di più saldamente attaccato al terreno, potrei sicuramente pensare a una mucca, qui invece anche le mucche sono sospese in aria, brucano erbe sospese in aria e bevono acque di rivoli che nascono da sorgenti sospese… perché proprio io dovrei continuare a tollerare la gravità?
è il mio corpo che cambia, è una strana sensazione e in effetti mi sento librare in aria, pesantemente, con la stessa percezione della mente in un corpo meditante che prende possesso del proprio respirare per rilassarsi a cascata partendo dalle spalle e passando dalle braccia, e poi le mani e le dita delle mani e più giù alle gambe e i piedi per arrivare alle dita dei piedi fino a che né peso né consistenza sono più percepibili e il corpo è lì, spiaccicato sul tappetino e la mente lo contempla sorvolandolo come negli ex voto di quelli che hanno fatto ritorno dal tunnel di luce e sono lì, dipinti come figurine dei cartoni che aleggiano biancovestiti sopra il proprio corpo incidentato. Ma poi ci hanno ripensato e sono tornati indietro a raccontare del sé-da-fuori in un talk show.
Quando sono salita qui sul Monte Le Penne la prima volta ero partita insieme a cinque baldi giovani ma mentre loro avevano già conquistato la vetta, io ero ancora alle pendici. Tutta la materialità del mio corpo era sostenuta da gambe di marmo immobili come due cariatidi e in piena crisi cardiorespiratoria, alla faccia dei polmoni perianali.
L’inaspettata fatica disumana che mi costava quella salita, a tratti reale impossibilità di farlo, era della medesima portata della apparente facilità che esibivano quei cinque impertinenti senza mostrare alcun rispetto della mia testa grigia.
Sono troppo grassa. Pensavo mentre il fiato mi rimaneva ingroppato nella gola e intanto Chiara e Riccardo, come due atletici montanari tirolesi, corpo proteso a monte, polpacci guizzanti e incedere costante, ci avevano distaccato di più lunghezze.
Si vede che loro sono allenati. Lui ha pure le scarpe da trekking! Deve fare parecchie escursioni. Rimuginavo mentre le cosce si rifiutavano di alzare le gambe.
Lorenzo si soffermava a fare foto. Allora anch'io, con scaltra teatralità e studiata noncuranza, facevo foto con un telefonino anteguerra, manifestando esagerato interesse per la vallata rivestita di cisti e corbezzoli. E per qualche minuto riprendevo a respirare.
Sono una donna di scienza con origini contadine: mi piace la natura selvaggia. Insistevo tenacemente nella pratica dell’autoconvinzione.
Poi anche Francesca e Sara mi distaccarono di un paio di tornanti.
Sono moolto più giovani di me. Le invidiavo rammaricandomi di essermi lasciata andare fisicamente ma cercavo di consolarmi considerando che tutti gli ex atleti si imbolsiscono... guarda Giampiero Galeazzi e Bud Spencer... quando giocavo a pallavolo mica ero così...
A metà strada, oltrepassata l’inutile porta di accesso ad uno spazio verde non più circoscritto, mi sedetti su un muretto, postazione che mi permetteva di intravedere la prima costruzione del complesso penitenziario e gli altri che salivano gli scalini di mattoni. Fra sforzi indicibili ce la feci a raggiungerli solo perché la retroguardia si era fermata mentre i primi, i tirolesi, avevano proseguito più su dove dicevano che ci fosse uno splendido laghetto. Ancora ringrazio il cielo che gli altri tre non abbiano avuto più fiato o voglia o, semplicemente abbiano preferito fumarsi una sigaretta perché quella sosta mi riportò alla normalità e a un ritmo respiratorio regolare.
Per fortuna la discesa non mi fece crollare: le ginocchia, a dispetto dei menischi arrugginiti, funzionarono benissimo nel riportarmi a valle e placare temporaneamente le mie ansie.
Memore di quel evento, oggi ho affrontato di nuovo quel tragitto con un po' di preoccupazione e rigorosamente in solitaria: anche se ho già scarpinato nei dintorni di casa senza conseguenze, se non i soliti dolori da risveglio muscolare forzato dopo lunga tregua, non volevo testimoni di un eventuale fallimento
Sono partita dalla chiesa dell'Assunta, incamminandomi decisa a misurarmi con la salita senza distrazioni con lo scopo di provare a me stessa che ce la potevo fare. Ho aggredito i tornanti con passo deciso e ritmo scandito mentre il sole era già alto, come allora ma un po' più cocente per la stagione estiva prolungata. Il respiro si è accelerato poi è diventato regolare e sono arrivata in cima senza mai fermarmi, nemmeno una sosta tecnica per bere acqua. In alto il cielo limpido era un incentivo ad arrivare fino in fondo, dove a marzo non ebbi cuore e finalmente ho potuto ammirare il lago, anche lui sospeso nel cielo. Mi sono lasciata andare supina, e sono rimasta inerte, come smembrata, faccia al cielo e testa tra le nuvole, a scrutare l'imperscrutabile.
Ora posso scendere e raccontare a tutti la mia avventura: ossigenazione 100%, in culo all’anemia.
sabato 13 agosto 2016
Corsi e ricorsi
è così che la nobile arte della stampa viene asservita al più spregevole dei commerci. Un libraio olandese ordina un libro come un artigiano fa fabbricare delle stoffe, e purtroppo si trovano scrittori forzati dalla necessità a vendere la propria fatica a questi mercanti come degli operai salariati. Di qui provengono tutti gli insipidi panegirici e i libelli diffamatori da cui il pubblico è sommerso; è una delle peggiori vergogne del nostro secolo.
venerdì 12 agosto 2016
Giornalisti
Per farsi rimborsare i pasti il responsabile delle pubbliche relazioni del Comune di Bologna ha usato il nome di alcuni giornalisti a loro insaputa e una volta scoperto, ha chiesto loro di confermare le sue dichiarazioni.
L'autrice dell'articolo, coinvolta e giustamente scandalizzata dalla richiesta, si è rifiutata di assecondarla.
Un riquadro a lato dell'articolo (che non riporta la specifica frase) sintetizza la giustificazione del reo in "l'ho fatto in buona fede" che è concettualmente erronea: un truffatore agisce nella presunzione della propria impunità.
L'autrice dell'articolo, coinvolta e giustamente scandalizzata dalla richiesta, si è rifiutata di assecondarla.
Un riquadro a lato dell'articolo (che non riporta la specifica frase) sintetizza la giustificazione del reo in "l'ho fatto in buona fede" che è concettualmente erronea: un truffatore agisce nella presunzione della propria impunità.
giovedì 28 luglio 2016
Gli 8 consigli di Vonnegut per scrivere bene una storia breve
1 – Utilizza il tempo
di un perfetto sconosciuto in modo che lui o lei non senta di averlo sprecato.
2 – Da’ al lettore
almeno un personaggio per cui possa fare il tifo
3 – Ogni personaggio
dovrebbe volere qualcosa, anche soltanto un bicchiere d’acqua.
4 – Ogni frase deve
fare una di queste due cose: mostrare un personaggio o far andare avanti la
storia.
5 – Inizia il più
vicino possibile alla fine.
6 – Sii sadico. Non
importa quanto dolci e innocenti siano i tuoi personaggi principali, fa’ che
accadano loro cose tremende così che il lettore possa vedere di che stoffa sono
fatti.
7 – Scrivi per dar
piacere solo a una persona. Se apri una finestra e fai l’amore con il mondo,
per così dire, la tua storia si prenderà una polmonite.
8 – Da’ ai tuoi
lettori la maggior parte di informazioni il prima possibile. Al diavolo la suspense.
I lettori dovrebbero avere una comprensione talmente completa di quel che sta
succedendo, dove e perché, da poter finire la storia da soli, nel caso gli
scarafaggi mangiassero le ultimissime pagine.
giovedì 21 luglio 2016
Scuola del Libro
La Scuola del Libro di Roma produce corsi di ogni genere su narrativa ed editoria, oltre alle collaborazioni con l'editrice SUR, che pubblica narrativa moderna americana, e Minimum Fax, che pubblica tutto il resto del mondo.
Siccome tutte le strade che portano a Roma sono a doppio senso, i loro corsi arrivano
anche a Firenze.
Potete leggere le mie impressioni su quello che ho frequentato io su #CorsistiAnonimi 3.
Siccome tutte le strade che portano a Roma sono a doppio senso, i loro corsi arrivano
anche a Firenze.
Potete leggere le mie impressioni su quello che ho frequentato io su #CorsistiAnonimi 3.
martedì 19 luglio 2016
Lettere delle eroine
Su Vibrisse, bollettino di letture e scritture a cura di Giulio Mozzi è stata pubblicata la lettera d'amore di Eva Kant.
lunedì 23 maggio 2016
domenica 1 maggio 2016
è natura…
Il giovane scrittore non è più una promessa ma neanche una certezza. Scrive romanzi, fa progetti arditi, scopre nuovi linguaggi ma il pane a casa lo porta con l’editing per una nota casa editrice. Pubblica interviste a personaggi di solida fama per varie riviste online… e ormai son dieci anni che salì da Napoli… mannaggia a chi t’è muort…
Sul Freccia Rossa 35528 delle quattordici si dirige da Firenze verso Milano dove arriverà in solo un’ora e quaranta, giusto in tempo per raggiungere la Feltrinelli in centro, dove alle sedici e trenta verrà intervistato sul suo ultimo romanzo. Oggi paga l’editore. Quando paga di tasca sua prende l’Intercity che costa meno e dura di più. La tappa di oggi è la ventesima delle quaranta previste, sparse per l’Italia e concentrate in tre mesi, per farsi conoscere sul territorio nazionale. Una faticaccia perché ci deve anche incastrare le lezioni di scrittura creativa in città, quella Firenze che conosce meglio di chi ci è nato, compresa la topografia di tutti i trippai. Poi ci sono le interviste in giro per il mondo. Meno male che per l’editore può lavorare dove vuole: a casa, ai giardini, in treno… Proprio ora sta leggendo una bozza, un trattato pallosissimo sulla natura sensibile delle piante nel giurassico In quel mentre la tipa bona seduta di fronte a lui, cerca di attaccare bottone.
Non gli par vero una fortuna del genere, di solito negli scompartimenti trova solo ex grandi fiche che gli cinguettano di aver letto tutti i suoi libri, ma il più delle volte lo scambiano col Vichi.
Ma quella non sembra conoscerlo e, poco originale, lo abborda con le solite frasi che si rivolgono ad uno che ha un libro in mano: che fai… leggi?... è divertente?... ahh… lo fai per lavoooro…
Lui che cerca sempre scompartimenti vuoti per concentrarsi, cullato soltanto dallo sferragliare del treno, all’inizio è scontroso, poi lo prende come un segno del destino. Si finge interessato: chi sa se riuscirà ad accattare qualcosa? Ascolta con falso interesse, intanto il birignao della femmina cambia tono e diventa confidenziale.
Beato lui che lavorava mentre lei era sempre stata una parassita in vendita al miglior offerente. Nel dirlo la donna getta la testa all’indietro e tira su una gamba quasi sdraiandosi sul sedile e sbotta: “Sono proprio sfortunata.”
Ma che vuole questa ora? Pensa il giovane scrittore che già pregustava una sveltina.
Vuole farsi trombare o confessarsi?
Lui la inquadra meglio. Quando è entrata nello scompartimento non gli erano sfuggiti la minigonna con squarcio laterale, gli stivali a mezza coscia e la camicetta trasparente, molto trasparente, che l’aveva costretto a piegarsi da un lato e ad accavallare le gambe con dolore, per evitare una figura di merda. Subito si era immerso nella lettura del capitolo sulle spore delle felci.
Meglio lavorare, aveva pensato.
Ora nota il suo abbigliamento alla moda, e, per quel che ne capisce lui, non sembra che provenga da uno shopping ai grandi magazzini.
Lei inizia a piagnucolare, lui approfitta sedendole accanto e abbracciandola per consolarla.
Intanto valuta il soggetto a tasto. Però, è notevole ‘sta panterona! Difficile staccarsi dopo che ti si è accostata. La bacia sulla fronte e la invita a proseguire il racconto.
La tipa non si sottrae, anzi gli si accomoda addosso, ma si fa sempre più affranta e prosegue la sua storia lacrimosa: che era nata in periferia da brava gente senza mezzi né ambizioni, invece lei fin da piccola aveva riconosciuto in sé un prepotente talento artistico.
In paese aveva ballato, cantato e recitato ma il palcoscenico dell’oratorio non le avrebbe mai dato alcuna visibilità Quindi a diciotto anni aveva partecipato ai provini per il Grande Fratello. L’avevano scartata subito.
“Ci sono rimasta malisssimo!”
Aveva capito dove aveva sbagliato, seguendo sul satellite le dirette notturne delle scene di sesso agli infrarossi: non aveva manifestato tutta la sua disponibilità.
Così imparo, aveva pensato e si era incaponita ad entrare in un programma qualunque. Velina, letterina, paperina, meteorina…
Venne convocata dal produttore: finalmente qualcuno l’aveva notata. Il vecchio barbogio col parrucchino l’aveva sbattuta sulla scrivania di quell’ufficio che sembrava la suite presidenziale dell’Hilton. Che avrebbe dovuto fare? Rinunciare a tutto quel ben di Dio? Prima la gavetta come amante, poi, dopo il divorzio di lui dalla vecchia, aveva sposato il Paperone.
Nel frattempo mai più disagi economici anche per i genitori sempliciotti. Certo ogni singola volta che aveva dovuto intrattenere il vecchio prostatico era stata una tortura… Ma lui le aveva regalato una Maserati e comunque d’estate lei stava nella villa di Formentera e lo vedeva poco. Di inverno invece si accoppiavano più di frequente nell’attico ai Parioli.
Aveva resistito, forte della certezza che lui l’avrebbe lasciata per una più giovane. Perché fanno tutti così. Dopo cinque anni era arrivato il divorzio per infedeltà di lui e si era guadagnata il sudato vitalizio.
Il giovane scrittore non sa cosa pensare, la donna è la tipica arrivista analfabeta, personaggio da aborrire… però non vuole perdere l’occasione fallica.
Il giovane di belle speranze speranzoso la capisce, poverina, che era troppo giovane e influenzabile data l’età, che erano cose che potevano succedere. Anche lui agli inizi aveva avuto la tentazione di accorciare la strada per il successo. La sua prima editor, grassa e con la forfora, lo aveva quasi incastrato in uno scambio sessuale. E lui era proprio con le pezze al culo. Ma era giovane e gagliardo, avrebbe potuto d’impeto, come dicono gli Americani, to Put a flag on her face and fuck for America, invece non aveva ceduto.
Che però per un uomo non era la stessa cosa. Ma ora gli sembrava che lei manifestasse i chiari segni di un imminente riscatto e gli era venuta un’idea grandiosa: scriverle una sceneggiatura sulla sua esemplare storia da lolita del terzo millennio.
Lei si riprende subito, l’idea la eccita - anche se è evidente che non sa chi sia Lolita - si struscia riconoscente addosso al suo eroe.
Dice che quella sarà la sua grande occasione per un film da protagonista.
“Ora che sono libera posso fare tutto quello che voglio. Anche trovarmi un compagno per amore… in verità io ce l’ho già… ma…” e sospirando si ritrae.
Il giovane scrittore non comprende né i dubbi né le certezze di questa strana donna, nonostante ciò si illude ancora e intanto la voce metallica del capotreno dall’altoparlante annuncia l’ingresso in Milano Centrale..
Con un brivido lungo la schiena l’autore ammaliato capisce che non ha colto l’attimo. Stringe più forte a sé quella che ormai considera la sua preda: non importa se non scoperanno oggi, c’è tempo. Domani… tra una settimana… tra un mese… Ormai è fatta, niente li potrà separare.
“… sono proprio sfortunata… proprio ora che avrei potuto avere il vero amore… ”
“Non capisco, se sei libera di fare ciò che vuoi, che ostacolo c’è ancora?”
La speranza di essere il prossimo fra le sue cosce si va affievolendo. Attende la risposta con un vago bruciore di stomaco.
“Beh… vedi… io sto andando a Milano per un colloquio da un produttore…”
“Mi sembra fantastico per la tua nuova vita… e allora?”
“ Se mi va bene di nuovo… non avrò bisogno d’amore… ”
(Liberamente tratto da Natura enigmatica di A. Čechov)
Allucinazioni
Giovane diplomato, ricercatore di filosofia, stressato dallo studio cerca conforto nella pace della campagna e torna alla fattoria avita dove ragazzino riusciva a trovare la pace desiderata. Ritrova il floricoltore che dopo averlo accolto anni addietro, da poco orfano dei genitori, lo considera più di un figlio, e la di lui figlia, lasciata cinque anni prima giovinetta e diventata donna, fragile d’aspetto ma forte nell’anima. Il giovane dottore si immerge con lei nelle nebbie della notte. Il gelo si avvicina e le coltivazioni vanno protette: il fumo dei fuochi sostituisce le nuvole che creano una coperta che riscalda dal freddo della notte, spiega con perizia la ragazza. A lui invece la notte evoca la leggenda del monaco nero che cominciò a vagare nel mondo e ricompare a distanza quando meno te lo aspetti nella notte buia. Il racconto spaventa la giovane che gli si accosta sempre di più e lui ci fa un pensierino mentre tornano a casa per riposarsi. Ma lui non va a dormire e torna indietro accompagnando il padre che fa il secondo turno di ronda. Quanto è affettuoso con lui tanto è aggressivo a parole con le maestranze, a suo dire distratte e incompetenti, e si intuisce che se fosse solo passerebbe immediatamente a vie di fatto. L’anziano floricoltore si confessa col figlioccio: lui vive per quel luogo che ha fama in tutta la nazione e che ha tirato su tutto da solo e soffre al pensiero che tutto vada perduto perché sa con certezza come andranno le cose: la figlia si sposerà e alla sua morte il genero manderà tutto in malora vendendo la proprietà. Quasi spera, eccezione epocale, che la figlia non si sposi perché sa che lei ha ereditato pari amore per quei luoghi e non li lascerebbe morire. A meno che non sia lui, il giovane ricercatore, ad ereditare quella responsabilità.
Già ci aveva pensato da solo, l’adorazione del suo genio da parte della giovinetta lo incanala dritto verso la realizzazione del desiderio matrimoniale del padre.
Un pomeriggio che ancora non è estate ma il freddo è ancora pungente, il giovane vaga da solo quando un vortice dapprima di vento poi di fumo nero prende le sembianze di un uomo, il monaco, che lo avvicina e gli parla. Il giovane continua ad avere visioni anche nei giorni successivi, e pur sapendo che sono allucinazioni si sente stranamente felice. Un giorno lo spirito gli rivela la sua verità: che deve sentirsi fiero di sé e del suo genio tutt’altro che mediocre. Travolto dalla felicità chiede la mano della fanciulla. La sua esagerata euforia tradisce lo stato allucinatorio e moglie e suocero lo sottopongono alle cure del medico che prescrive sedativi per la mente malata. Calmanti e riposo forzato trasformano corpo e spirito, scompaiono le allucinazioni ma anche la sua prestanza lascia il posto ad un essere pallido e bolso che, triste, maledice se stesso e chi gli sta intorno con odio particolare nei confronti del suocero: perché lo avevano curato se questo era il prezzo? Prima era pazzo e megalomane, ma in compenso era allegro, interessante e originale. Ora era l’essere mediocre che a lui ripugnava. Intollerante, arrogante, lascia tutto: moglie, suocero e campagna.
Va a convivere more uxorio con una donna più matura. Dopo due anni riceve una lettera accusatoria della moglie con la notizia che il suocero è morto per colpa sua. Ormai è un uomo perduto che si spegne lentamente. Rivede il monaco nero per l’ultima volta che lo rimprovera per non avergli creduto.
(Liberamente tratto da Il monaco nero di A. Čechov)
venerdì 29 aprile 2016
C'è delitto e... delitto...
Non ho paura... l’adrenalina come viene, va. Le farfalle
nello stomaco e le formiche nelle gambe svaniscono come se un gigantesco
formichiere le aspirasse in un sol colpo. Ioga e meditazione fanno miracoli per
chi fa un lavoro come il mio... è da venti anni che sono alla nera e di situazioni
come queste me ne sono capitate un fottio... è sempre finita bene... per me,
voglio dire, in fin dei conti io sono ancora qui che scrivo... comunque lo
squillo del telefono che ti sveglia di colpo alle tre di notte mentre dormi
beata e ti sogni Gerard Leonida Butler nudo, ti fa un buco nello stomaco
e ti manda il battito a mille… ce ne vuole perché il battito riprenda
regolare... Mi chiama uno dalla redazione e mi dice che c’è stata una
telefonata in questura, una vecchietta isterica urlava, farfugliava che glielo
avevano ucciso… Chi, signora… chi le hanno ucciso?… le hanno chiesto ma
lei continuava a ragionare per conto suo… Qui, qui, venite qui, in via del
Capitano 9... Dove diavolo è questa strada poi… Sono salita in macchina e ho cercato di far partire il navigatore... poi ci siamo arrivati quasi per
puro caso non certo con l’aiuto di Giovanni, che anche mentre guidava dormiva che
sembrava morto… come farà con le foto… è ancora intontito seduto in macchina. Io
sono entrata coi carabinieri che abbiamo già trovato lì sul posto. Quello più
anziano è rimasto ai piedi della scala, a coprirci le spalle... non mi pare
molto affidabile il vecchio panzone… sembra alle soglie della pensione…
speriamo che non lo facciano fuori come in quei film americani del cazzo…
L'appartamento
è al piano terra di un palazzo vecchio, vecchissimo, con la tromba delle scale
immensa e altissima, da sindrome di Stendhal. Il carabiniere giovane, Vanni
come si è frettolosamente presentato per strada, mi precede di due passi,
insieme all’appuntato si posiziona tra me e il portoncino… Aprite: Carabinieri...
da dentro nessuno gli risponde… non si sente niente… nemmeno un lamento della
vecchietta… l’avranno ammazzata... o si sarà nascosta... il portoncino è aperto…
si vede la luce che filtra di lato… il milite entra… passo leggero, ginocchia
flesse… pistola a due mani altezza occhi, spalle ben piazzate per non patire il
rinculo: sembra una intrusione da manuale... Io lo seguo mantenendo le distanze.
Siamo in un andito quadrato, praticamente una stanza… non ci sono porte
visibili… sulla parete di sinistra c’è un poster del Sic. A parte questa nota
stonata è una casa vecchio stampo… largo spreco di spazio... sembra tutto a
portata d’occhio e invece bisogna avere mille precauzioni: nelle vecchie case
ci sono degli sgabuzzini mimetizzati nei muri che ti trovi un braccio intorno
al collo e manco vedi di chi è... è vero che qui ci sta una vecchia… però…
Sotto il
poster, una vecchia poltrona sfilacciata di damascato giallo ocra, accoglie un
plaid a quadri lanciato alla rinfusa. Accanto un tavolino da lavoro con ferri
da calza e gomitolo di lana grigio topo, spampanato intorno al modellino di una
Harley. La parete sul lato desto si interrompe, c’è una svolta… forse dietro il
muro c’è un corridoio parallelo all’andito… il carabiniere e l’appuntato procedono
allo stesso modo, bassi e rapidi, girano l’angolo, prima l’uno poi l’altro… cazzo,
che ci fa qui ‘sto pezzo di ferro… sento che bisbigliano… Passo accanto
alla poltrona e batto il ginocchio sul bracciolo sporgente: Gniaaouuu… un
gatto grigio come il gomitolo schizza verso di me soffiandomi in faccia prima
di correre e intrufolarsi nella porta in
fondo al corridoio... Dalla stanza arriva un mugolio soffocato incomprensibile…
Le pareti sono grigie, affumicate dai fumi del riscaldamento… deve esserci una
stufa a cherosene… si sentono ancora gli idrocarburi nell’aria… Nelle mani del
carabiniere il pezzo di ferro si rivela il motorino di avviamento di una moto… è pulito, non sembrano esserci
tracce di sangue… ma la vecchia dove sarà?… Il corridoio è stretto… a destra la
faccia di Vale in tuta gialla e 46 azzurro mi sorride… che hai da ridere, scemo, che qui dentro ci potrebbe essere una vecchia morta?… Il carabiniere, Vanni, apre
la porta: una camera col letto sfatto, nessun armadio, un comodino, una
finestra, per terra una cassetta per gli attrezzi, chiavi inglesi dappertutto… anche
queste sembrano pulite… della vecchia nessuna traccia. Di lato una porta del
colore della parete. Lo dicevo io che nelle vecchie case ci sono aperture mimetizzate nel muro. Deve essere il guardaroba. Ci avviciniamo. Signora…
signora… Carabinieri…. Siamo qui per aiutarla…. Si faccia sentire… Mi mette
ansia una manata sporca sulla faccia esterna della porta… sembra sangue e pure
la pozza per terra… colore brunastro, liquido denso… è sangue… forse… per
entrare nello sgabuzzino bisogna scavalcarla, per non inquinare la scena del
crimine… Signora, ora apro la porta dello stanzino: se lei è dentro si
faccia sentire... ARGH… aargh… uuuahh… Oddio, la vecchia, la stanno
facendo fuori… Signora tenga duro… ora entriamo… fermi tutti…
Carabinieri… in ginocchio… mani in alto… faccia a terra…
Dentro c’è soltanto la vecchia tutta rossa in viso.
Finalmente siete arrivati…
Giusto in tempo per salvarla… signora…
Ma che salvare! Piuttosto mi aiuti a togliere
questa maledetta tuta: mi sono ingrassata…
La graziosa vecchina dai capelli bianchi strizzati in una
cipollina dietro la nuca, il viso abbronzato riquadrato dalle rughe, è
infilata dentro una tuta di pelle imbottita sulle spalle, sulle ginocchia e sui
gomiti. Ai piedi calza stivali da cross motosi.
Signora, scusi ma dove è il morto?
Là per terra... non l'ha visto? Mi hanno fatto fuori il
motore… questi incapaci… ora per gentilezza, appena mi sono cambiata, mi potrebbe
accompagnare ai Gigli che c’è un venditore di ricambi aperto ventiquattro ore
su ventiquattro… Su… mi faccia questa cortessiiia…
martedì 5 aprile 2016
Elena Triolo disegnatrice
Stamani ho trovato per caso le strip di questa conterranea, ne vale veramente la pena.
Questo è il suo blog:
http://elenatriolo.blogspot.it/
Questo è il suo blog:
http://elenatriolo.blogspot.it/
lunedì 28 marzo 2016
Doc
Doc
si svegliò col solito mal di testa. Si sedette sul letto, si
stropicciò gli occhi producendo un rumore di stoviglie sgrassate e
tirò fuori le gambe dalle coperte verso l’esterno del letto. Portò
i piedi verso terra con cautela, badando bene di non sfiorare il
pavimento. Infilò le pantofole che il giorno prima aveva sistemato,
ciascuna in una piastrella diversa, parallele ed equidistanti dai
bordi, lontano dalle fughe candide. I suoi nonni avevano voluto
pavimenti di ampie lastre di marmo. Pensava con orrore alle
piastrelle di maiolica che erano in casa di Guido, dove il suo
quarantasei e mezzo avrebbe strabordato oltre le fughe annerite da
anni di accumulo di sudiciume. Era molto tempo che non entrava in
casa di Guido.
Si
alzò e si mise delle mutande pulite, andò in bagno e alzò la
ciambella. Nonostante la pressione vescicale fosse ai limiti massimi
delle sue possibilità, prese a lungo la mira prima di dirigere lo
schizzo preciso nel buco del vater. Peccato non ci fosse un testimone
che potesse constatare questa sua dote inusuale, tanto apprezzata
dalle donne.
Tirò
la catenella e iniziò un accurato lavaggio genitale terminandolo con
asciugatura ad aria dell’apposito apparecchio asciugatore appeso
alla parete accanto al bidé. Poi passò a lavarsi le mani con la
pratica che aveva imparato sui depliant illustrati che si trovano in
ospedale. Con la punta delle dita appaiate, grattugiò a lungo il
palmo dell’altra mano. Sorrise pensando che un osservatore
frettoloso avrebbe equivocato lo scopo di quel gesto che in realtà
serve a pulire il margine delle unghie grattugianti. Poi con quelle
stesse dita, questa volta disposte a cannolo, circondò e strusciò
accuratamente ciascun dito dell’altra mano per il senso della
lunghezza. Il lavaggio standard, quello in cui si stringono
reciprocamente le mani, non è efficace a detergere gli spazi alla
base delle dita, rifugio naturale degli acari. Invertì i ruoli di
destra e sinistra: la mano fino ad allora lavante divenne da lavare e
la lavata, lavante. A Doc piaceva complicare le cose semplici, almeno
a parole. Gli piacevano i giochi di parole complicati. Ma complicarsi
la vita non era per lui un piacere.
La
colazione era un momento stressante perché era fatta di attività
sporche che lui poteva evitare solo in parte. Sulla mensola del
lavandino c’erano allineate le macchinette per il caffè già
pronte con acqua e polvere, ben chiuse: una per la colazione, una per
il pranzo e una per la cena. Le preparava Gilda, la domestica che
veniva a giorni alterni. La moca non si può lavare col sapone, non
si può mettere in lavastoviglie: è obbligatorio infilare le dita
nella polvere umida. L’alternativa è lasciarla chiusa e passare il
problema a un altro. L’intervento sulla crosticina accagliata lungo
il perimetro del pentolino, esito di latte riscaldato, era
inevitabile. Non era uno spazio confinato: qualcuno doveva
immediatamente impedire al biofilm di autoalimentarsi e spargere
intorno migliaia di microbi. Gli ripugnava ma manteneva un suo senso
del dovere. Infilava un paio di guanti da cucina, nuovi, prendeva la
spazzolino per pentole e faceva quello che doveva fare, in apnea.
Riprendeva a respirare soltanto alla chiusura dello sportello della
lavastoviglie.
La
vestizione non era ansiogena, tranne quando si doveva infilare le
scarpe. Allora interveniva con quindici minuti di meditazione guidato
dalla voce registrata del suo maestro yogi Jacopo. Il rilassamento
che ne conseguiva gli procurava l’autocontrollo sufficiente a
uscire di casa.
Si
incamminò. Raggiungeva qualunque destinazione a piedi perché
evitava gli spazi confinati troppo angusti e il bus era quello di
tipo peggiore. Doc era dinamico, atletico, anche se non frequentava
palestre per ovvi motivi. Soprattutto per scansare i famigerati
funghi delle docce. Quindi arrivò a destinazione in venti minuti
senza fiatone, ovviamente non fumava. Fu accolto da un manifesto con
la sua bella faccia. Il messaggio truffaldino dei suoi profondi occhi
neri, incastonati in una cornice di ricci altrettanto scuri,
esprimeva una virilità in realtà assai poco esercitata. Anche la
sua voce profonda evocava nelle sue fans l'aspettativa di torride
sedute di sesso sfrenato ma era per puro caso se non era ancora
vergine. La sua prima esperienza era stata precoce, fu sedotto dalla
vicina di casa di quindici anni più grande. Lui era un ragazzino,
lei era una donna vera, diversa dalle sue insicure compagne di studi
trincerate dietro formalismi e falsi pregiudizi morali. Fu una
relazione piuttosto duratura ma iniziò a sgretolarsi
impercettibilmente sin dall’inizio. Doc andava imparando le cose di
cui aver paura e lei si spaventò per la progressione sommatoria
delle sue fissazioni.
Doc
entrò nel camerino e tolse gli auricolari dalla bustina di plastica
con cui le aveva sterilizzate sotto gli UV. Le infilò nelle orecchie
e poi inserì lo spinotto nel telefono. Si lasciò andare alla
cantilena ipnotica della voce di Jacopo. Bene perché l’effetto
della prima dose si era già esaurito. Quindi salì sul palco.
“Buonasera
a tutti, come va? Tutto bene? A me va a meraviglia, sono arrivato qui
a piedi, ho contato i passi: 2375. E ci sono 23 scalini dal camerino
nei sotterranei. Chissà perché i camerini sono sempre nei
sotterranei. Forse per ricordare che la strada per il successo è in
salita…
Comunque
i numeri sono la mia passione fin da bambino. Il primo ricordo è
intorno ai tre anni, col nonno che mi faceva contare gli scalini per
arrivare al nostro appartamento al secondo piano, 32. Me li faceva
contare tutti i giorni, più volte al giorno. Ora capisco le sue
buone intenzioni ma allora… non apprezzavo. Non avevo neanche un
orologio di Topolino da guardare con impazienza per fargli capire che
una volta va bene, la seconda passi ma alla quinta mi ero già rotto
le palle.
Poi
ho cominciato a contare per conto mio. Prevalentemente elencavo
quante volte mi lavavo le mani. Non era lo stesso numero tutti i
giorni. Le lavavo ogni volta che le avevo sporche. Cioè ogni volta
che toccavo un oggetto sporco. Cioè ogni volta che toccavo un
oggetto che non era mio. Diciamo dieci, dodici volte la mattina e di
nuovo il pomeriggio. Questo accadeva, quando ero commesso in un
negozio di abbigliamento in centro. Avete la minima idea di quanti e
quali microbi ci siano su una scatola di cartone che è passata dalla
casa di una lavoratrice a cottimo, di un paese del terzo mondo, dove
vivono tutti in una stanza, con figli grandi e piccoli, i nonni, gli
animali domestici e da cortile? Quella scatola poi va insieme ad
altre che provengono dalle case di lavoratrici diverse, di villaggi
diversi, in regioni diverse, di stati diversi, tutti accomunati dal
mancato rispetto delle più elementari norme igieniche. La scatola va
in una stiva. Pensate al micro mondo che prolifera nella stiva di una
nave: muffe, batteri, virus, protozoi, lieviti che possono infettarvi
e provocare allergie da contatto e produrre tossine che agiscono
lontano nel tempo e nello spazio. Poi il carico infetto arriva in un
paese dell’Est Europa e viene caricato nella stiva di un aereo. Qui
almeno si blocca la perversa moltiplicazione iperbolica: a
diecimila metri la temperatura va sotto zero.
Comunque,
eliminata la scatola e le singole buste che racchiudono i capi di
abbigliamento, mi potevo togliere i guanti, consideravo la merce
sufficientemente pulita. Allora contavo le magliette mentre le
impilavo sugli scaffali badando che i loro profili combaciassero.
A parte
le sue manie, lei è il commesso ideale…
Con
queste parole il responsabile del negozio mi consegnò il trofeo
dorato, pacchiano e pieno di ditate, che è rimasto in salotto per
tre anni di fila, muto testimone della mia abilità di venditore.
Questo lo dovevo tutto a mia madre e a lei ogni volta dedicavo il
premio ma non l'ha mai saputo. Mia madre non veniva a trovarmi
sul lavoro e non vide mai la mia menzione speciale attaccata in
bacheca.
Mamma
esce di casa raramente. Mentre la Gilda fa i lavori di casa, la mamma
conta e impila tutto quello che trova nel guardaroba. Il suo è il
corredo esagerato di una figlia unica della buona borghesia ma un
pomeriggio aveva finito i pezzi da contare e non voleva distruggere
le pile già composte. Gilda andò di corsa a casa sua e le portò i
tovaglioli spaiati del suo corredo. Gilda è la nostra salvezza ma
non ha sempre tutta questa pazienza. Ogni tanto vorrebbe togliersi la
mamma dai piedi ma non è semplice smuoverla: mamma non esce se abiti
ed accessori non sono tutti dello stesso colore. Non importa se ormai
non c'è nessuno che pretenda di vedere il colore delle sue
mutande.
A
un certo punto ho smesso di contare e impilare oggetti: è stato
allora che mi hanno licenziato. Avevo una nuova passione: le parole e
il suono della mia voce. Mi fissavo su due parole e ci
ragionavo sopra fino a che non trovavo il legame logico indissolubile
tra loro. Compravo la settimana enigmistica soltanto per risolvere
il bersaglio e poi la regalavo a Gilda. Ogni giorno
andavo dal giornalaio e mi lamentavo dell’iniquità che produceva
un sacco di riviste di cruciverba e nessuna dedicata alla logica
verbale. Passavo pomeriggi interi in edicola facendo monologhi logici
e lamentele specifiche mentre il giornalaio sistemava le riviste in
silenzio. Qualche avventore casuale mi lanciava una sfida mentre
usciva col suo giornale sotto braccio. Poi qualcuno si è fermato più
a lungo e si sono alternati momenti di silenzio a scrosci di risate.
L'edicola era diventato un circolo di gente che rideva. Beh, lì ho
ho capito cosa dovevo fare per stare bene con me stesso. E ora ditemi
due parole e le collegherò in meno di sei passaggi… Come dice... la
signora laggiù... sì, proprio lei, là in fondo... Eccessi e... Moine? Facile:
Eccessi - Carenze - Carezze – Moine...”
Una
debole sirena annunciò che il pranzo era pronto.
“Prima
che ve ne andiate… mi rendo conto soltanto ora che non mi sono
presentato. Mi chiamo Antonio. Quello sul manifesto è il mio nome
d’arte: DOC come “Disturbo Ossessivo Compulsivo.”
Scroscio
di applausi. Nessun fischio, i degenti di Villa Il Sorriso portano
quasi tutti la dentiera.
sabato 12 marzo 2016
Giornalisti
Il povero Keith Emerson, pace all'anima sua, NON HA SCRITTO HONKY TONKY TRAIN BLUES...
L'ha scritto MEADE LUX LEWIS
Memento: scripta manent!
Riguardo al foglio bianco
posseggo una teoria:
posseggo una teoria:
la mera carta igienica ognuno sa cos’è
la prende, la rigira e poi sa far da sé.
Il foglio intonso invece
è tutto un altro affare.
è tutto un altro affare.
Se protocollo suscita nel giovane studente
timor reverenziale pel compito da fare.
La carta vergatina compete allo scrittore
che con ugual timore si pone lì davanti.
Come comincio adesso? Dove voglio parare?
Son dubbi ripetuti per chi della scrittura,
se non per professione s'ingegna per diletto.
Domande destinate a rimanere eluse.
Sia che si scriva tanto e poi si scarti,
o che si pensi a lungo all’immortale inizio.
Ammesso, e non concesso, il sacro fuoco
è inutile sforzare il proprio ingegno:
il poeta recluso può solo immaginare,
esprimere inventando le cose che non sa.
Sol chi dal quotidiano trae pasto per la mente
soddisfacente trova l’anelito a creare
e soddisfatto appare del tono pertinente.
Così materializza qualcosa che sia degno
così si entra appieno nell’ambito desiato
così si può andar fieri di ciò che si è creato.
E se anche questa volta l'alloro si consegue,
senza toni drammatici o dover esser greve,
ringrazio il cielo e penso ai poveri poeti
che aspirano alla fama prima ancor di poetare
e scrivono di getto parole da gettare.
E se anche questa volta l'alloro si consegue,
senza toni drammatici o dover esser greve,
ringrazio il cielo e penso ai poveri poeti
che aspirano alla fama prima ancor di poetare
e scrivono di getto parole da gettare.
6 marzo 2014
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